È un legame invisibile che mi ha portato fin qui. Quello con mio nonno Moka, sì lo chiamavo proprio così, che da bebè mi cullava e addormentava e da bimba mi portava al porto ad aspettare le navi che arrivavano cariche di merci. È morto quando avevo poco meno di sei anni, ma i ricordi sono vivi e nitidi.

Con gli occhi della memoria lo rivedo nella torrefazione che aveva creato a Salerno nel 1950, dove da piccola giocavo con mia sorella tra gli alberi di limoni e mandarini cinesi nello spiazzo di fronte, perché dentro mi era vietato entrare, era pieno di macchinari. Lo ricordo vicino al grande tamburo che roteava per la tostatura del caffè e sento ancora il tintinnio del campanello che avvisava che i chicchi erano pronti e stavano per entrare nella vasca di raffreddamento. Trascorrevo lì giornate intere, mangiando agrumi sorrentini e assaporandone il profumo mischiato all’aroma sprigionato, simile a quello dei biscotti speziati appena usciti dal forno. Io sono nata tra quegli odori, la mia vita è il caffè. Ed è questo legame speciale che mi ha portato a viaggiare nelle terre delle piantagioni.

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Antonia in India al lavoro con le donne che selezionano i chicchi di caffè.

Nel 2015, a 21 anni, quando sono tornata a Salerno per iniziare a lavorare nell’azienda di famiglia con in tasca una laurea triennale in marketing e comunicazione presa allo Iulm di Milano, mio padre dopo appena un mese mi ha consegnato un biglietto aereo e mi ha detto «Parti»: destinazione Tegucigalpa, Honduras. Tre voli e un viaggio con un improbabile bus scortato dalla polizia locale, seduta a fianco degli honduregni, per arrivare nella zona di Las Capucas, nel villaggio di Pachapa, piantagioni a duemila metri di altezza. Ero spaventata, ma era come se il nonno mi avesse mandato lì a conoscere Francisco Villeda Panchito e la sua tenuta, un pezzo di terra di appena due ettari che lui coltivava da 20 anni. I figli e i nipoti di Panchito, tantissimi, correvano tra piante verdi, fiori bianchi con un profumo simile al gelsomino, e i frutti, le drupe rosse, quelle specie di ciliegie che contengono i chicchi. Lui lavorava la sua piantagione con il solo braccio destro: il sinistro lo aveva perso in uno scontro armato quando era nell’esercito. Mi sono innamorata subito di quella gente, della generosità, così come di quelle colazioni a base di papaya, fagioli e, ovviamente, caffè: il loro legame con la terra mi è entrato dentro. Quelle mani che raccolgono e puliscono i frutti, quei volti accoglienti: la gente non ci pensa mai, ma dietro un chicco c’è il dignitoso lavoro di persone.

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Antonia Trucillo controlla le drupe, specie di ciliegie che contengono i chicchi.

Dopo l’Honduras è stata la volta della Colombia, ad Armenia, capoluogo del dipartimento di Quindío. E poi Huila, dove ho conosciuto Lina Rojas Castrillon, la più giovane produttrice, di appena 20 anni, un grande esempio. Il suo sguardo e il mio si sono incontrati e compresi da subito, senza bisogno di parole: parlavamo la lingua del caffè, chi lavora la capisce. Poi Guatemala, Brasile, Vietnam. Ogni volta che torno da un viaggio, o meglio da una piantagione, ho bisogno di fermarmi. Di raccogliermi e metabolizzare.

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In India con le donne che, sedute per terra vicino a mucchi di chicchi di caffè, selezionano a mano i buoni da quelli difettosi.

Come quando sono stata in India, nelle regioni di Karnataka, Kerala e Tamil Nadu. Dovevo interiorizzare il lavoro delle donne indiane che, da mattina a sera, vestite con meravigliosi sari colorati, si siedono per terra vicino a mucchi di chicchi e selezionano a mano i buoni da quelli difettosi, e l’aroma si mischia a quelli di coriandolo, curcuma, curry, pepe e vaniglia: uno spettacolo sensoriale inebriante. Ho viaggiato cinque anni per conoscere il lavoro delle piantagioni, ma senza quei viaggi formativi non sarei riuscita a comprenderne i segreti.

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Nelle piantagioni in Colombia.

La parte più tecnica l’ho appresa, invece, nei mesi trascorsi a Santos, il maggiore porto sudamericano per il commercio del caffè. Da noi per terra vedi carte e cicche di sigarette, lì le strade sono cosparse di chicchi persi dai camion e dai container. Scricchiolano sotto i piedi e il loro odore si diffonde ovunque. Ed è in quella città brasiliana che sono diventata assaggiatrice.

Fino ad allora avevo usato vista e olfatto, da quel momento i miei sensi si aprivano all’universo del gusto. Lì ho imparato il cupping, l’arte brasiliana per valutare il caffè, che se la racconti, però, non ha un grande appeal.

«Nel mondo ci sono 180 Quality Grader, in Italia solo in 35. Poche donne, io sono la più giovane»

Il caffè macinato si scioglie in acqua calda e si risucchia rumorosamente con un cucchiaio facendo roteare il liquido in bocca per poi sputarlo, anche per 600-700 volte al giorno. Gli aromi si rompono sulle papille gustative e si valuta amarezza, acidità, intensità, i possibili difetti quali sentori di terra, di juta, di erba, di muffe. Un’esperienza intensa. Che mi ha permesso di diventare Q Grader, (Q sta per Quality, ndr), del Coffee Quality Institute, la massima certificazione nell’universo del caffè. Lo racconto con orgoglio, perché in Italia siamo solo in 35, poco più di 180 nel mondo. Poche donne, io sono la più giovane. Dopo ho aggiunto anche gli studi alla Specialty Coffee Association (l’ente internazionale che rappresenta le migliaia di professionisti, dai produttori ai baristi, ndr) e sono diventata Specialty Trainer. Così oggi insegno l’arte dell’espresso nell’Accademia della nostra torrefazione, creata dalla mamma nel 1998. La gente giudica una tazzina con un sorso, ma il caffè ha le sue regole: 7-9 grammi, temperatura dell’acqua intorno ai 67 gradi, 25-30 ml da filtrare in 25-30 secondi.

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In Vietnam con coltivatori locali.

Ecco perché io non bevo ma degusto il caffè. Per me è un rituale silenzioso, pochi secondi, in cui riaffiorano emozioni, sensazioni, odori, storie. Respiro il profumo delle piantagioni, rivedo le mani dei coltivatori nella terra, ricordo il loro sacrificio. Mi sento a casa. Sono stata fortunata, ma mio nonno Moka lo sapeva da prima. Ora mi ha fermato la pandemia, ma aspetto di partire per l’Uganda e la Tanzania. Sono altre tappe di un viaggio iniziato da piccola.