“La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta”. Che c'entra una massima filosofica di Theodor Adorno con un’intervista che parlerà di cibo? È una contaminazione, come le premesse-promesse della cucina di Takeshi Iwai, chef di AALTO – part of IYO, una stella Michelin che ci rischiara dall’alto del primo piano della Torre Solaria, nel distretto di Porta Nuova a Milano, luogo simbolo di una città sempre più cosmopolita, aperta e proiettata nel futuro. Giapponese, classe 1978, una laurea in economia e un biglietto di sola andata, quello per l’Italia, dove si formerà fra i fornelli delle cucine più importanti, e diverse, del Paese, da La madia di Pino Cuttaia al Quadri di Massimiliano Alajmo e Silvio Giavedoni, “La mia cucina non è fusion, ma gioca tra culture diverse”, ci racconta, “il mio credo in cucina fa più o meno così: valorizzare, senza stravolgere, ingredienti innanzitutto locali. Prima di tutto viene la materia, che deve essere ineccepibile. Poi arriva il pensiero sull’esecuzione, che mira a piatti inediti, espressioni di combinazioni armoniche tra aromi e sapori. Un esercizio in equilibrio tra tecnica, precisione e ricerca, con il gusto che si erge a fondamento prepotente di ogni piatto”. Da giugno 2020 è chef di AALTO - part of IYO, il nuovo progetto gastronomico di Claudio Liu, già patron di IYO Experience, il primo ristorante di cucina giapponese con una stella Michelin in Italia. “La cucina di AALTO - part of IYO è libera da ogni definizione” risponde Claudio Liu, “È libera di essere italiana, giapponese, entrambe le cose o nessuna delle due. Non tracciare confini esprime la possibilità di superarli”. Ed è proprio sull’idea di una cucina senza etichette e in continua evoluzione che si realizza, materializza, concretizza, boccone dopo boccone, la cucina di Takeshi Iwai. Parte dalle sue origini, il Giappone, da quell’estetica e quelle tecniche - fermentazioni o cottura alla carbonella (sumibiyaki) - per poi intrecciarsi ai principi della cucina italiana, on un valzer di passato e presente, stratificazioni di tradizioni, devozioni a stagionalità e sostenibilità, assente da ostentazioni, presente nel suo essere semplice ma mai scontata, fresca ed elegante. “Mi piace sperimentare e creare per gli ospiti piatti sempre diversi”, continua chef Iwai, “perché stupore e sorpresa sono ingredienti fondamentali, al pari delle materie prime”. Insieme a lui, anche Masashi Suzuki, protagonista del Sushi Banco Iyo Omakase, la côté 6 posti dove poter vivere un’esperienza tête-à-tête con un sushi master, l’unica in Italia. “I miei piatti sono un incontro, non un incrocio, di culture”, chiosa chef Iwai, parafrasando il nuovo logo del ristorante, un incontro di segmenti, un crocevia di direzioni possibili, una moltitudine di gusti, culture, percorsi e esperienze. Dallo spaghetto alle vongole, ricci di mare e crema di porcini fermentati alla cacio e pepe con Ostriche-bushi grattugiato (scoprirete nelle prossime righe di cosa si tratta), passando per la cantina a parete di 3,5 per 10 metri per 1600 bottiglie, se AALTO – part of IYO ha ricevuto la prima stella dalla Guida Michelin Italia 2021 in soli quattro mesi di apertura ci sarà un perché, e ce lo spiega direttamente Takeshi.

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Qual è il tuo primo ricordo dietro i fornelli?
Io che da ragazzino faccio esperimenti con i pomodori acidi, non ancora maturi, imbrattando tutta la cucina.

Qual è il tuo primo ricordo della cucina italiana?
Trent’anni fa in Giappone, cucina italiana rimava con spaghetti meatball con ketchup, pepperoni pizza o la celebre neapolitan sauce, un condimento che non ho mai capito cosa fosse. Però c’è un però, un giorno, avevo 14 anni, vado a pranzo con la mia famiglia in un ristorante italiano appena aperto vicino casa. Un vero ristorante italiano. Sono uscito scioccato per quanto avessi goduto a ogni boccone di amatriciana, caprese o pizza napoletana… Diciamo che dalla sera stessa ho provato a replicare in tutti i modi i piatti che avevo mangiato, cestinando per sempre il ketchup però!

Qual è quel cibo che, come la madeleine per Proust, ti riporta indietro nel tempo?
La zuppa di miso della mia famiglia. Un po’ come la pasta al pomodoro in Italia, ogni casa ha una ricetta diversa, impossibile da replicare alla perfezione. Una magia.

Da cosa nasce l’ispirazione per un impiattamento?
Potenzialmente, da tutto. Ad esempio, anni fa, quando abitavo in una cascina di campagna, mi svegliavo prestissimo al mattino per andare a passeggiare e raccogliere le erbe spontanee. Sentendo quei profumi, osservando la natura, nascevano in modo naturale dentro di me gli accostamenti con cui fare gli abbinamenti piatto dopo piatto. Oppure mi piace giocare con le parole, vedi i piatti a base di “pollo e porro”, “anguilla e anguria”. Infine, l’ispirazione più grande sono i viaggi, le culture diverse, i sapori che non avevo mai immaginato.

Okay è arrivato il momento di farci venire l’acquolina in bocca, ci racconti la storia del tuo nuovo menu?
Stagionalità, profumi che diventano fragranze sul palato, consistenze che spaesano, acidità, dolcezza, materie prime figlie di una ricerca serratissima, mangiare giocando, questi sono i capisaldi di questo e di tutti i miei menu.

Mangiare giocando?
Sì, io desidero far godere i commensali sia perché ciò che mangiano è buono, sia perché non si “annoino” mangiandolo. Gioco con i piatti della cucina italiana, dagli spaghetti con le vongole ai tonnarelli cacio e pepe, però li condisco, decoro e, soprattutto, presento in tavola, in un modo un po’ insolito. Che ricorda i piatti orientali.

Salivazione attivata, mi fai un esempio?
Gli spaghetti cacio e pepe alla tsukemen, da intingere in un brodo di anguilla in saor, e completare con olio di pino e ginepro, guancia di maiale e olio al caffè, sedano e lime-kosho. Un piatto che è un ponte tra la tradizione italiana della pasta, la ritualità dei gesti della cultura giapponese e gli ingredienti da tutto il mondo. Lo tsukemen infatti è un ramen giapponese in cui i soba vengono mangiati dopo essere stati inzuppati con le bacchette, un boccone alla volta, in una ciotola di zuppa o brodo. Quindi ogni boccone può cambiare gusto in base ai condimenti serviti in diverse ciotoline di ingredienti, alla quantità degli spaghetti che prendi, o alle salse in cui lo mixi. Insomma, un piatto-incontro di culture, che stimola la condivisione e la creatività di ogni commensale.

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Cannolicchi, asparagi bianchi, camomilla.

Hai conquistato una stella Michelin dopo soli quattro mesi dietro il bancone di AALTO – part of IYO…
Sembra uno scherzo vero? Infatti continuo a non crederci. Praticamente ogni chef ha questo obiettivo ma non penserebbe mai di raggiungerlo in quattro mesi. Ricordo volesse intervistarmi un ispettore della guida, abbiamo parlato, ha cenato da noi, dopo pochi giorni rispondo al telefono, dall’altra parte della cornetta c’era un signore che mi diceva che avevamo preso la stella.

Ormai il tema della fermentazione in cucina è stato sdoganato in moltissimi ristoranti, tu come interpreti questa scienza/tecnica/tradizione antichissima?
Attraverso uno dei miei condimenti preferiti della cucina giapponese, lo yuzu-kosho. Una salsa a base di peperoncino, succo e buccia di yuzu, il limone giapponese. Da AALTO – part of IYO però lo italianizzo, utilizzando agrumi locali, quindi avremo il mandarino-kosho, il lime-kosho…

C’è una tecnica in particolare su cui stai lavorando al momento?
Tecnica? Cos’è la tecnica? (ride) Sto giocando con il procedimento con cui si prepara il katsuobushi, un tonnetto essiccato che si grattugia in fiocchi per impreziosire alcuni piatti. Io voglio fare lo stesso ma con la carne di manzo, anatra o piccione.

“Parlami d’amore…” ehm di dessert.
Per me il dolce deve essere… dolce. Niente stranezze, amo i grandi classici, seppur reinventati. Dal tiramisù alla millefoglie, arricchiti con qualche contaminazione orientale.

La cosa per cui il tuo lavoro non ti stancherà mai.
Vedere i tavoli del mio ristorante pieni di gente felice.

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Takeshi Iwai