L’arte è il mezzo più affascinante e immediato quando si vuole (ri)scoprire la tradizione di un popolo in una determinata epoca. La corrente ottocentesca del Verismo abruzzese, guidata dal celebre pittore Francesco Paolo Michetti, rievoca le giornate, i volti, gli ambienti, del popolo d’Abruzzo, tra ritratti, giorni di festa e luoghi di campagna. Molte giovani fanciulle sono protagoniste dei suoi quadri. Ed è a questi che bisogna fare riferimento per scoprire il patrimonio di gioielli della regione. E della tradizione. Un lavoro su tela da prendere come riferimento è notoriamente La figlia di Iorio (1895), oggi visibile nella sala comunale del consiglio provinciale di Pescara. L’opera ritrae cinque giovani sdraiati per terra, più due persone sul lato destro, intenti a osservare una donna con indosso un velo rosso, dal quale spuntano dei pendenti dorati. I monili in questione vengono chiamati Sciacquajje o orecchini lunari e sono l’emblema della folklore abruzzese. Percorrendo lo stivale verso nord, superando colline e campi, avvicinandoci leggermente al mare, si arriva in veneto. Precisamente ai confini della Valle del Piave, in una terra di contadini in cui il continuo dialogo tra stagioni e territorio è sinonimo di duro lavoro e anche di bien vivre, viene prodotto il vino Raboso, che nasce dove le alte sfere non osano, per arrivare oggi a essere definito un’eccezione nel mondo dei grandi vini, come i ben più noti Barolo e Brunello.

italy   may 29  verona, galleria civica d'arte moderna e contemporanea di palazzo forti art gallery the olive harvest, 1873, by francesco paolo michetti 1851 1929, oil on canvas, 48x35 cm photo by deagostinigetty imagespinterest
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A riscoprire quest’uva e il suo carattere importante, acido ma oggi nobile, sono diverse aziende agricole del settore. Una, in particolare, dedica al Raboso una cura speciale: Sutto, realtà vitivinicola a conduzione famigliare fondata da Luigi Sutto quasi un secolo fa, nel 1933. Il progetto pone la sua pietra miliare a Campo di Pietra, nel trevigiano. E in quell’area, negli anni, dà vita ai suoi vini, tra bianchi e rossi, concependo tre etichette: Sutto, Batíso e Polje. Il trittico dell’enologia veneta, guidata ora dai fratelli Luigi e Stefano. Il Raboso fa parte della prima. Ed è un vino contadino che attraverso i lustri diventa grande, grazie anche allo sviluppo delle tecniche di viticoltura, una creazione di altissima qualità. I monili lunari abruzzesi percorrono idealmente lo stesso percorso, sebbene in modi e tempi diversi. Le Sciacquajje, infatti, sono preziosi tipici di una terra di certo non aulica, non aristocratica, ma sicuramente autentica. La leggenda vuole che il nome derivi dal verbo "sciacquare", attività che in passato svolgono principalmente le donne. Secondo fonti storiche, di orecchini con pendenti ne esistono in gran quantità in tutto il regno d’Italia, ma nell’aerea chietina, questi si differenziano per il determinato modello a navicella o cerchio semi-lunato con pendagli e catenelle oscillanti. Ogni dettaglio, dai ciondoli alla luna stessa, racchiude in sé un significato particolare. Affascinante è quello attribuito al nostro satellite, il quale richiama, sempre secondo le tracce storiche passate, i suoi mutamenti, conferendo al gioiello la capacità di influenzare, nell’immaginario collettivo, le azioni umane, la salute e la fertilità. Un prezioso realizzato, ovviamente, da esperti artigiani. Il design del monile racchiude l’epopea del Mediterraneo. Guardandoli bene, in ogni dettaglio, è possibile ammirare influenze arabe così come greche e siciliane. E a proposito di conquiste, il Raboso riesce a espandere un po’ i suoi confini dalla Valle del Piave, arrivando a un bacino che sfiora anche la Lombardia quando Venezia si appresta a oltrepassare le affascinanti lande della Laguna. Infatti, nonostante all’epoca non fosse considerato un vino nobile, il nettare è ben noto nella Serenissima e i condottieri lo portano sempre nelle spedizioni. È il 1200. Altrettanto antico è il modus in cui vengono realizzati gli orecchini Sciacquajje. Oggi è possibile velocizzare il processo di creazione grazie a macchinari avanzati ma in passato - e ci sono ancora persone che li imbastiscono così - viene usato il tombolo, se la richiesta è di averli in tessuto, oppure mani martelletti e fuoco, per plasmare il bronzo.

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“Certo che vengono raccolte a mano le uve”, spiega Jacopo Meiattini dal veneto. L’amministratore di Sutto racconta che il Raboso è “uno dei vini cuore del veneto perché già il nome rimanda alla zona”. Di fatto è onomatopeico, come lo scia delle Sciacquajje. Ma perché il Raboso non è mai stato considerato un vino nella sua unicità? “Perché non era così facile da bere. Tutt’oggi è scuro, piuttosto acido”, prosegue Jacopo, “inoltre veniva usato come vino da taglio”. Ovvero con lo scopo di correggere alcune caratteristiche di altri vini, soprattutto la gradazione alcolica e il colore. E, solitamente, non viene commercializzato. Sutto riesce a nobilitarlo, a renderlo un vino da meditazione, nella versione invecchiata. “Pensa che per via delle sue caratteristiche particolari, anni e anni fa veniva bevuto frizzante. Era il vino del popolo che era solito berlo sfuso”. Il Raboso è un vino che viene dal basso per arrivare in alto. E a proposito di levatura, se gli orecchini lunari vengono indossati da ogni ceto, è dal materiale e dal metodo di lavorazione che si percepisce l’appartenenza a un determinato rango e all’etnia. Nessun gioiello della tradizione può essere paragonato a questo in quanto a emblemi a quanto pare. Simbolicamente e concretamente, il Raboso contemporaneo fermo, di un rosso intenso con riflessi granati, è un unicum nel mondo dei vini. Si è dato una nuova veste con il lavoro e l’intuito di chi crede nelle sue uve e oggi, chi lo beve, assapora all’olfatto fragranze marcate di marasca matura e, al prolungarsi dell’invecchiamento, fa emergere sentori di spezie mediterranee e un vivo profumo di violetta. Al palato regala sempre un po’ di acidità legata perfettamente con la ciliegia. Ma in modo armonico, più elegante che in passato, quando, fino a prima degli anni Settanta, “le persone, specialmente del nostro territorio, lavorano esclusivamente la terra. Il Veneto non è come la Toscana o il Piemonte. Il nostro terreno è difficile, argilloso. Qui non c’è poesia”, conclude Jacopo. Peccato che, una volta versato un calice di Raboso di Sutto, indossati gli orecchini abruzzesi e scoperto il volto con i delicati fili della tradizione, la poesia emerga, come l’uva di vino complesso, come una donna.

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