Tra i 350 e i 600 metri delle colline a sud di Firenze, quattro donne stanno cambiando il Chianti. Il più tenace pubblicizzato e conosciuto dei vini italiani, troppo spesso scaduto in espressività per l'aderenza allo standard con la S maiuscola. Ironia della sorte, è la stessa lettera con cui inizia il poker di donne del vino in grado di restituire complessità, freschezza e levità al rosso toscano per eccellenza. Nelle presentazioni è la parola interpretazione a farsi summa esplicativa di questo nuovo corso che libera il Chianti Classico dal giogo aggressivo del legno, regalandogli una nuova dignità e freschezza. Sono parole chiave come vita e pazienza a unirle, la gioiosa somiglianza di scelte che le hanno portate a occuparsi del territorio nella ricerca di una nicchia espressiva, a vedere e contrastare gli effetti reali del climate change tra le colline toscane. Ma soprattutto, ad essere donne produttrici di vino in uno schema di mercato smaccatamente a predominanza maschile. La pioniera e veterana è Susanna Grassi de I Fabbri, twin-set in cachemire blu, treccia spettinata e occhi brillantissimi. Ex coordinatrice di collezioni di intimo, nel 2000 molla il lavoro nel fashionbiz per riappropriarsi della collina di Casole, nel comprensorio di Lamole. "Ho poche idee abbastanza chiare: fare vini di qualità" specifica sin da subito. "La proprietà era stata affittata da mio padre per 30 anni, l’aveva ereditata da mio nonno. Esistevano delle etichette ma si imbottigliava per terzi, il mio bisnonno aveva iniziato la commercializzazione di etichetta. La nostra assenza aveva fatto perdere dignità a questo luogo che amo molto e nel 2000 mi pareva un buon momento per fare il salto" racconta Susanna. Dai circa sei ettari e mezzo di vigna spalmati in altezza (da 450 a 680 metri slm), si ottengono 35mila bottiglie l’anno, con etichette diverse a seconda degli affinamenti del vino, che seguono le altezze del terreno. "Mi sarei divertita meno con un’unica etichetta di Chianti classico" sorride. Di cambiamenti in vigna per cambiamento climatico ne ha già testimoniati parecchi: "Siamo diventati di moda. Prima i vini di Lamole non erano così apprezzati, noi siamo stati fortunati in annate come il 2017. E anche il 2021 avrà effetti in bottiglia. È cambiato il mercato e il gusto, ma coltivare in quota è un vantaggio" e lei lo sa bene. Negli occhi lampeggia l'orgoglio di chi sta dando corpo fisico ad un sogno lontano: "Se guardo indietro, era quello che volevo fare da bambina".

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Courtesy/Riccardo Bartalucci
Le donne del Chianti Classico: da sx Serena Coccia (Podere Castellinuzza), Susanna Grassi (I Fabbri), Sofia Ruhne (Terreno), Sophie Conte (Tregole)

Da Podere Castellinuzza Serena Coccia condivide con l'amica e collega il profondo legame con il territorio e la testimonianza di un ricambio gender-azionale, l'innesto che ha vivificato la produzione. "La cosa particolare di Lamole è che nessuno dei vecchi proprietari se ne è andato, il radicamento e l’appartenenza al territorio sono belli e importanti. La mia è un'azienda familiare, siamo lì dagli inizi del 900. Il mio bisnonno e nonno erano mezzadri, ma negli anni 60 la mezzadria è scomparsa e molte persone se ne sono andate da questi terreni scoscesi. Mio nonno no, decise di rimanere e acquistare altre proprietà, dal 1961 è tutto nostro" riassume in un breve trattato storico-sociologico di storia contadina d'Italia. Tre ettari di vigneti e due di oliveto esposti principalmente a nord ovest (solo due vigneti a sudest), per vini gentili: "Mio padre è il cuore pulsante, ha oltre 80 anni ma conosce le viti una ad una, e vuole fare un vino autentico" sorride Serena. "L’altezza dà dei profumi meravigliosi ai nostri vini, non hanno particolare struttura ma personalità: il bosco, la rosa canina, le fragoline, sono il pacchetto aromatico della natura. Tutti i vigneti nostri sono di oltre 50 anni, il Vigne Vecchie addirittura viene da viti di oltre 100 anni, presumibilmente di fine ottocento. Ci teniamo tantissimo, curandole e preservandole. Le viti sono il nostro patrimonio". L'eredità, per fortuna, si può anche acquisire in modi diversamente fantasiosi come per Sofia Ruhne, proprietaria di Terreno. A Greve in Chianti è arrivata dalla Svezia per la prima volta nel 1988 con la sua famiglia, che rilevò un'azienda vitivinicola incrementando i vigneti. Nello stemma per la cantina campeggia un'inusuale banana. "Mio padre è armatore, gira il mondo trasportando la frutta nei container, e specialmente trasporta banane. Ma io non le mangio più" ride Sofia, svelando anche che la forma della banana nella scrittura runica rappresenta una R, come l'iniziale del suo cognome. Filologia a parte, anche lei ha scelto il vino dopo una carriera alternativa: "Sono laureata in storia, facevo altro. Sono arrivata 10 anni fa, la prima ad occuparmi attivamente dell’azienda, ho cambiato molte cose". Dal 2014 Terreno è bio e usa solo uve di proprietà, puntando su territorio e qualità che permettono di arginare la questione del cambiamento climatico. "Volevo aggiungere un sangiovese in quota con più acidità, e abbiamo preso 4 ettari sul crinale di Monte Fioralle, dal terreno più duro e calcareo. Il Riserva Sillano lo abbiamo 'scoperto' nel 2017 quando per il caldo faticavamo a fare un vino fresco: di solito vendemmiamo dopo il 15 ottobre, quell'anno anticipammo al 15 settembre. Asofia invece è un sangiovese in purezza, il mio primo progetto personale". Lo scoglio maggiore è stato dover superare le ostilità dei vecchi operai della vigna, messi di fronte ai corsi di formazione per cambiare metodo di potatura. Cresciuta tra la parità di genere assoluta della Svezia, l'impatto iniziale con la campagna del Chianti avrebbe potuto essere scioccante per Sofia, ma l'ha affrontato con scioltezza: "Trovarmi in un ambiente solo maschile significava imparare una cultura diversa, dovevo capire come muovermi. E negli ultimi 10 anni è cambiato molto anche qua".

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Courtesy/Riccardo Bartalucci

La più giovane del quartetto è Sophie Conte dell’azienda Tregole di Castellina in Chianti, dove la vigna più alta è a 600 metri sul crinale che guarda verso Radda. Un'area ricca di storia, torre longobarda dei primi anni Mille appartenente per secoli ai Palagi che lavoravano le uve; il passaggio di mano tra alcune proprietà straniere in turnover turbolento ha messo la tenuta in condizioni pessime, prima dell'arrivo della famiglia di Sophie che l'ha acquistata per amore del posto. "Papà architetto e mamma restauratrice, hanno sempre vissuto nel Chianti e avevano il sogno di una piccola fattoria. Ci hanno messo quasi 10 anni a trovare Tregole, la casa era abbandonata e non curata" racconta Sophie. Numeri piccoli, massimo rispetto in tutte le 18mila bottiglie. "I vigneti sono degli anni 50, tra cui un Cabernet del 1952 che è molto singolare a Castellina. Non amo toccare troppo il vino, i miei fanno molto cemento e solo legno super utilizzato. Sono molto verticali, hanno bisogno di tempo per aprirsi e rivelarsi, chiedono invecchiamento" spiega accorata Sophie. "Acidità altissima, tannini, note minerali predominanti quasi sapide: per svelare la frutta c'è bisogno di tempo". Il riposo lungo è quello che permette ai Chianti di Sophie di raccontarsi al meglio, affiancando il poderoso olio di Tregole, incredibilmente amaro e piccante, che cola prezioso sulle fette di pane sciocco arrivate a tamponare la fame dei commensali. "L’accoglienza è parte della vita" sorride Sophie.

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Courtesy/Riccardo Bartalucci

Ma la prima accoglienza, in realtà, l'hanno eseguita tra di loro, sostenendosi a vicenda nell'eterna contrapposizione con la tradizione maschile e conservatrice. "All’inizio ho avuto difficoltà per l’età: la campagna è anche il mondo del farsi raccontare le cose dagli anziani, proporre il nuovo è difficile" prosegue Sophie. "Non credo ci siano difficoltà a fare vino in quanto donna, palato e scelte sono personali al di là del sesso". Diversa l'esperienza di Serena Coccia: "Venendo da una famiglia patriarcale, una donna era vista in modo strano. È stato però più un problema mio, poi mi sono lanciata, adoro produrre un vino che piace a me e racconta un territorio. Non sto in vigna, ma c’è bisogno di tante figure e persone: l’importante è averlo nel sangue, avere una sensibilità in più sul lavoro. Per me l’odore del mosto a ottobre è vita". Susanna Grassi marca il passo con la sua storia e una chiosa finale che è il sunto di una filosofia condivisa: "Per me è stato difficilissimo, anche perché non sapevo niente. Secondo me, più che un discorso di palato, si parla di sensibilità: le donne sono meno nervose. Non abbiamo mai dubbi sul risultato del vino, siamo più pazienti, viviamo con amore e fiducia anche la maternità, sappiamo aspettare. Io vivo così anche le mie annate più difficili: aspetto con fiducia che si esprimano. Non ho mai avuto un dubbio”.