Ci sono domande che scatenano tempeste emozionali. Domande innocenti, semplici, bocconi di sensazioni che dalla memoria affiorano sulla lingua. Che cibo ti fa pensare a tua madre? La pizza è la trasgressione che si impara sin da piccoli, le patatine fritte, i dolci, ma le ricette della mamma si depositano in un luogo particolare, intoccabile ed evocativo, un cassetto che si apre di colpo. Gli inglesi se la cavano con un neologismo, motherfood, crasi tra motherhood, maternità, e food. Il cibo e la madre, nutrimento primordiale corredato di gesti universali, contratto alimentare di crescita, persino abbandono. I piatti della mamma, ricordi di infanzia, di adolescenza, di recente adultità, che alimentano il compendio gastro-emotivo di ognuno di noi.

Fabrizia Mirabella, digital content editor. Tornare in primavera, rinascere in primavera, mangiare la primavera. Mia madre Sara che sbuccia una quantità di fave fresche alta quanto i Monti Iblei è il gesto, la visione, la fotografia impressa nella mia mente che è un po' pugno, un po' carezza per la mia nostalgia di casa, di Sicilia. Il macco di fave è la mia madeleine, è quel modo di dirmi "bentornata a casa", è quel motivo per cui dico "a Milano c’è tutto, ma…". La ricetta di mia madre è anche quella di mia nonna e di sua madre e di sua madre: 700 gr di fave fresche sbucciate, 4 cucchiai di olio evo, 1 cucchiaino di sale, 1 scalogno o 1 cipollotto fresco, 1 litro di acqua. Soffriggere la cipolla a dadini piccolissimi in una pentola con olio, aggiungere le fave sbucciate, sale e pepe. A parte, far bollire un pentolino d’acqua e poi versarlo sul soffritto di fave. Far cuocere a fiamma bassa per 1 ora/ 1 ora e mezza. Servire in purezza o con pasta, in questo caso far cuocere la pasta (consiglio: pasta mista o maltagliati) nella stessa pentola. P.S. Consiglio, aggiungete a metà cottura del finocchietto selvatico fresco e non lesinate con l'olio a crudo, una coltre di oro liquido ai lati del piatto.

Debora Attanasio, digital content editor. Mia madre Annamaria si era specializzata nella preparazione dei pomodori col riso perché negli anni 70 e 80 li reputava l’unico pasto possibile da tirare fuori dalla borsa frigo durante le gite nella faggeta di Soriano nel Cimino, o sulla spiaggia di Terracina. Leggeri, pratici nella gestione – due a testa e via – ma allo stesso tempo un vero pasto, lei che temeva sempre di veder morire d’inedia le figlie. Per prepararli comprava al mercato pomodori belli polposi, maturi e acquosi, perché non rischiano di seccarsi nel forno. Si scoperchiava col coltello e li svuotava stando attenta a non forarli. In una terrina metteva tutta la polpa tirata fuori, scartando eventuali parti dure, e poi la passava col passino. Ci aggiungeva un po’ di sale e il riso per risotti, un cucchiaio e mezzo per pomodoro, un pochino di olio e prezzemolo. Lasciava il composto a riposare un'oretta. Intanto pelava una quantità impressionante di patate con cui faceva un bel lettino nel tegame dopo averle salate e oliate. A quel punto aggiustava il sale, riempiva i pomodori già sistemati nel tegame, li copriva con i loro coperchi, un altro filo d’olio e in forno. Al tempo i forni non graduavano la temperatura, a volte li portava nel forno pubblico a legna di Soriano e si passava dopo a riprenderli. Oggi la temperatura a 160 gradi è l’ideale. Da leccarsi i baffi.

Vanessa Perilli, digital beauty editor. Quando ero piccola ed ero magra come un'acciuga, mia madre Nuccia mi preparava spesso etti ed etti di carne. In particolare ricordo con un po' di disgusto il fegato cotto nel burro e la carne trita marinata nel limone, che diceva mi avrebbero dato forza e sostanza. Poi c'erano due eventi per i quali mi preparava dei piatti "speciali": un indimenticabile riso bianco quando ero malata, mentre quando invitavo delle amiche a giocare dopo la scuola o il budino alla vaniglia o il salame al cioccolato, entrambi rigorosamente preparati in casa con le sue mani. Ora che sono mamma e molto poco cuoca, adoro quando mia madre prepara per me e per la mia famiglia gli "uccelletti scappati" o le sue deliziose polpettine di pesce da gustare con un filo di olio e limone, o per gli amanti dei gusti più forti con della salsa di soia! Due ricette che fanno tutti felici e soprattutto risolvono il pensiero di un pasto! Quale potrebbe essere il ricordo che i miei figli avranno dei piatti preparati da me? Caschiamo male, io sono la mamma che propina minestrone, pasticci di legumi e centrifugati detox. Molto probabilmente la Madeleine di Proust per loro saranno i succulenti piatti "furbi" del papà, in primis le piadine super farcite e i suoi imbottitissimi tacos rivisitati e creati in modo sartoriale seguendo i gusti di ogni membro della famiglia.

Chiara Ugo Baudino, digital fashion editor. Mia mamma Graziella cucina(va) solo la domenica mattina a pranzo. Di mamma veneta e papà croato, nata e cresciuta in Liguria, ha vissuto gran parte della sua vita da sposata con sua suocera, mia nonna Lucia, piemontese doc e regina in cucina. Per questo mia madre prepara solo pochissimi piatti: arrosto e coniglio alla ligure per la primavera-estate, bollito misto e minestrone con la salsiccia per l’autunno-inverno. Non amava uscire dalla sua comfort zone e tanto meno sperimentare nuove ricette, il che l'ha resa imbattibile nell’esecuzione di quei piatti. Ancora oggi provo e riprovo a fare quel minestrone ma niente, nonostante le sia stata accanto come sous chef innumerevoli domeniche: ero l’addetta a sbucciare fagioli rossi, fave o baccelli di piselli freschi a seconda della stagione, tagliare punta e coda dei fagiolini e andare nell’orto a prendere alloro e rosmarino. Ancora oggi, quando torno a casa, glielo chiedo: "Mami, domenica prepariamo il minestrone?".

Arianna Galati, freelance editor. Mia madre Anna Rita è tanto cibo. Curiosità, anarchia (le ricette non si seguono, si interpretano), necessità, concessioni industrial (gli Abbracci del Mulino Bianco a colazione, e guai a chi glieli toccava), cultura del km zero prima che andasse di moda. La fettina di fegato con aglio e finocchietto in condivisione madre-figlia, inclinazione e educazione alle frattaglie. La minestra di ceci e castagne della Vigilia di Natale, subappaltata da sua madre a lei, densa e cremosa, aromatica, confortevole prequel di festa. Le lumachelle di pasta di pane con pepe, tocchetti di prosciutto e tanto formaggio, tipiche (uniche) di Orvieto e dintorni. Ma nella memoria gastronomica famigliare, mia mamma è il rotolo di spinaci. Con la cucina regionale umbra non c'entra niente, ma quel rettangolo di sfoglia di pasta fresca su cui stendere ricotta di pecora del pastore e spinaci freschi lavorati di giri al passaverdure, profumati di noce moscata, parmigiano e pepe, legati da un uovo fresco, è il più madre. Il rettangolo si arrotola stretto, si cuce in un fazzoletto spesso (mia mamma china ad affondare l'ago, a punti larghi, nel tovagliolo superstite di una tovaglia del corredo) e si tuffa a bollire in un pentolone capiente finché si spegne il gas e si lascia raffreddare nella sua acqua, metafora eccellente della pazienza. Da freddo si fa a fettine da condire con robusto sugo di pomodoro, parmigiano e due fiocchetti di burro, e via in forno finché il profumo non si sente dalle scale. La precisione delle fette sdraiate in teglia lascia fuori la parte più buona. "Chi vuole il culetto?" è il grido di battaglia, le estremità coriacee del rotolo per cui io e mio fratello litighiamo ancora oggi, pur sapendo che sub judice matre "le cose si fanno sempre a metà".