Lo snodo ferroviario delle Marche, Falconara Marittima, è un grumo di strade squadrate. Sulla provinciale verso Senigallia la raffineria dell'API si annebbia nell'afa grigia tra cielo e mare, ma l'odore piccante della benzina la rende più presente che mai. Pochi minuti di asfalto a velocità lenta e Paolo Brunelli, gelatiere, cioccolatiere, manipolatore di cose dolci come preferisce essere definito, traduce da bravo Caronte nella lingua di spiazzo davanti Paolo Brunelli Combo, la sua terza (e finora ultima) apertura di meraviglie, a Marzocca (chi non riesca ad avvicinarsi alla costa adriatica, avrà sempre lo shop online cui affidarsi). Un paradiso di pareti blu refrigerio, sedute rosse e tavoli quadrati ampi in legno dove accomodarsi per assaggiare, in una degustazione peculiare, le creazioni di uno dei migliori gelatieri d'Italia. Ma quando glielo dici, nei suoi quasi 190 cm di altezza sembra rimpicciolirsi, arrossisce, si schernisce di modestia. Però è così, e lo sanno tutte le persone che hanno deciso di sposare/assaggiare/supportare la sua visione metafisico-umana del gelato. Che rivede al ribasso le quantità di zucchero, alza la qualità delle vere materie prime, revisiona i gusti più classici in una levità commovente per le papille gustative.

Con il suo gelato Paolo Brunelli vuole andare oltre. Non è solo dolci, non è solo golosità, non è solo gelato. I am not a gelato (Maretti Editore) è il titolo del suo nuovo libro, dove la sua interpretazione supersonica è affiancata dagli scatti del fotografo Lido Vannucchi. Il progetto di de-stagionalizzazione del gelato prende finalmente sempre più corpo: modificare la convinzione (convenzione) che appartenga solo ai quattro mesi di caldo, cancellare i limiti seasonal della primavera estate, avviarlo alla gloria annuale. Una performance artistico-degustativa che inizia mettendo il libro stesso sottovuoto, congelandolo, liberarlo poi dal ghiaccio e osservare lo scioglimento con la stessa pena morbosa che riserveremmo ad un cono rovesciato sbadatamente sull'asfalto. Il viaggio a ritroso nella biografia di Paolo Brunelli comincia dalle sue ultime creature fisiche, il libro e il laboratorio sentimentale dove mangiare il miglior gelato al cioccolato d'Italia - unione sublime tra cioccolato e cacao, panna e la giusta quantità di zucchero, in grado di scatenare emozioni fortissime di passione, torna da dove tutto cominciato e riparte per proseguire il lento, incessante lavoro di riconversione intelligente del consumo. Il gelato va liberato dal pregiudizio di essere cibo per bambini, della dittatura del low cost, dal doppio taglio dell'essere democratico (accessibile a tutti ma per questo a rischio qualitativo), dal giogo della bella stagione. E pure dalla cappa marketing dell'artigianalità: "L'aggettivo artigianale è stata una delle prime cose che ho voluto togliere" spiega infervorandosi.

Nelle coppette biodegradabili monoporzione color liquirizia volano la crema Brunelli e il caffè leccese (a base di latte di mandorla, ça va sans dire), le coppe vintage in vetro accolgono le granite sempre fresche, la panna trabocca, montata al momento, da ciotoline singole dove pescare a piacimento (molto). L'ultimo capitolo imprenditoriale di Brunelli è il terzo punto vendita dopo il bar-albergo dell'entroterra, di cui sono proprietari i suoi arzilli genitori, e il locale a Senigallia: con un impegno nella sostenibilità che è vero, reale, pieno di domande e di risoluzione di contraddizioni. Nell'assaggio di granita alle ciliegie (ancora asprigne, hanno preso poco sole) in contrasto con la dolcezza rapé del cocco e la sofficità della panna, a chiudere la serata, si comprendono molte delle sfumature del carattere di Brunelli. Determinato, coriaceo, schivo e schietto, ma di una generosità accecante. Pura marchigianità al suo meglio, un rapporto con il territorio che non si esaurisce in misero landwashing per farsi belli pubblicamente. È un legame profondo, resistente e duraturo. Perché superare il concetto incistato nella cultura gastronomica richiede basi solide da cui partire. Nel caso di Paolo Brunelli sono state coltivate per vie traverse, a colpi di musica a tutto volume, col paese che sa esattamente cosa stai facendo a seconda dei decibel che emergono da casa tua. E ti diverti anche a ingannarlo piazzando i Pink Floyd in loop quando, in realtà, stai dormendo. "Io volevo fare il musicista, so suonare la chitarra, il basso, il pianoforte. Tutti male" ride apertamente, tagliando le curve con la nonchalance di chi quelle strade le conosce a memoria. "Facevo il DJ, avevo uno studio di registrazione, venivano anche persone importanti. Secondo te che musica potevo fare, nei primi anni novanta?". Quanto di più lontano dalle levità del gelato, la techno, ma in un certo senso indicativa per iniziare a raccontare l'omone nutrito a robusti colpi di faraona in crosta di pane e fritto misto a doppia panatura. Che la mamma, 86 anni di capelli ametista e magenta, mascherina in tinta e ciabatte + grembiule d'ordinanza da vergara marchigiana, replica a beneficio degli ospiti (solo su prenotazione o in caso di eventi eccezionali, come la presentazione del libro). La famiglia è una parte fondamentale della vita di Paolo Brunelli: un matriarcato che parte dalla vigorosa madre, scivola sul fianco della deliziosa Gloria (che gestisce con calda professionalità la sala di Combo) e atterra sulle tre figlie, guardate con gli occhi stanchi di profondo amore in un fine serata tropicale. "Loro faranno quello che vogliono" sussurra, nel non detto carico di significati sulla libertà. Come è stato libero lui, nel (continuare a) percorrere la strada tortuosa per nobilitare il più prezioso dei freddi.