Il detto secondo il quale la storia è scritta dai vincitori è vero non solo per i grandi conflitti mondiali o i concorsi a cattedra nelle facoltà umanistiche, ma anche per i gelati. Accanto all'agiografia riservata a prodotti come il Cornetto Algida, il Maxibon o la Coppa del Nonno, oggetto di narrazioni che li presentano come eroi classici belli e buoni, frutto del congelamento di un ideale di perfezione fisica e organolettica, in vendita da sempre e per sempre, c'è un'altra storia di gelati emarginati o rinnegati, fuori formato o semplicemente fuori luogo. È una storia che non sarà mai celebrata e raramente raccontata e che appartiene ai Piedoni, ai Doctor Strabik, ai Gum. Questi freak sottozero, ciascuno con la sua particolare mostruosità esteriore, ma talvolta dotati di una loro intima bellezza, formano la corte dei miracoli dei gelati confezionati. Tutti loro hanno un'identità da sfoggiare o da tenere stretta sotto l'incarto. Molti parlano di noi e delle nostre grandi o piccole paure, come quella di essere accettati dagli altri o di scoprire che la propria cialda ha ceduto. Giusto alcuni casi estremi, per fortuna, parlano solo di se stessi, e tutto sommato è meglio così. La caratteristica fondamentale che li accomuna e li distingue dagli altri gelati industriali è che non è che abbiano preferito la sostanza alla forma, o viceversa: hanno rinunciato a entrambe in partenza.

Questi gelati hanno un aspetto e una struttura così malfermi e irragionevoli, ma comunque vistosi e ingiustificatamente ottimisti che, ancora oggi, ritrovandoli nelle foto pixellate di vecchie tabelle da bar, ci viene il dubbio se volessero essere attirare l'attenzione o la disapprovazione del pubblico; se fossero coscienti della loro prospettiva di vita transeunte, di quanto fosse vicino l'oblio; o se invece, spavaldi com'erano e come sembrano ancora, fossero convinti di potersi giocare fino in fondo la loro chance per il successo. A moltissimi di loro è andata male. Alcuni, come il Mazinga Motta, sono stati gelati effimeri, durati il tempo di una stagione. Questo era un ice cream sandwich alla vaniglia e al cacao. Unendo i forellini sulla superficie dei due wafer di cui era composto, come se fossero punti luminosi di una costellazione, veniva fuori una specie di sindone del noto robot. Nella sua inserzione pubblicitaria Mazinga sembra sorridere col suo tipico ghigno mecha. Prometteva benissimo, insomma, se non che ebbe la sfortuna di nascere dalla parte sbagliata del biscotto nella stessa epoca del Cucciolone. È facile fare i fricchettoni se si è un gelato artigianale. Del resto, non esiste materia commestibile che non possa essere trasformata in modo relativamente facile in crema di gelato. Prendete Ice Cream City, all'interno di Namjatown, il parco a tema della casa di videogiochi Namco nel quartiere di Ikebukuro a Toshima, Tokyo. Lì non si fanno mancare un mantecato alla lingua di vitello, per fare un esempio che non sia estremo come quello della carne di cavallo, e per tacere dei ben più normaloni gusti sale e seppia. Essere freak per un gelato confezionato è tutt'altro paio di maniche. Per prima cosa richiede uno sforzo d'immaginazione e di conseguente resa figurativa che il gelato artigianale (che è una massa astratta) e quello industriale (che è di stampo geometrizzante) non conosceranno mai. Il Chupa Chups Algida (limone, fragola o cola) rappresenta il grado zero di questa tendenza figurativa: riproduce sotto forma di ghiacciolo qualcosa che è già leccabile in natura. Non tutti i gelati freak hanno questa fortuna. Il Doctor Strabik Eldorado era una fionda di plastica (realmente utilizzabile e reclamizzata come tale) su cui erano montate due ellissi di gelato alla fragola (o meglio: colorato di rosa, corrispondente alla pelle del dottore) con un cuore di vaniglia (le sclere degli occhi). I due blocchi erano ricoperti per metà da cioccolato (le palpebre cadenti, per assicurare al volto un piglio professorale) e decorati con due gomme americane rosse (i bulbi oculari iniettati di sangue, a significare squilibrio mentale) abbastanza dure da essere sfruttabili anche come proiettili. Tutto molto ingegnoso, senonché spessissimo, per imprecisioni (o precisioni?) della catena di montaggio, gli occhi dello scienziato pazzo, invece che risultare strabici, erano invece drittissimi, vanificando gran parte dello sforzo concettuale. Strabik era diseducativo sotto svariati livelli, ma non per quello della fiducia nella mano dell'uomo che, puntualmente, postproducendo lo strabismo del dottore, provvedeva a disallineare le gomme (prima di spararle contro amici o parenti).

Anche il gelato dedicato alla Pantera Rosa era noto per vantare del chewing-gum incassato nelle orbite del soggetto rappresentato. Con attenzione filologica ai film dedicati all'ispettore Clouseau – e per fair play col Doctor Strabik – le gomme erano sì dure come diamanti, ma questo non scoraggiava gli appassionati che le cavavano e mettevano da parte con grande riguardo (un po' come fanno i ghiottoni di cucina marinara di grado pro con gli occhi di una spigola), senza però riuscire effettivamente nell'impresa di masticarle. Questo anche perché il resto delle carni congelate del povero felino non sapeva di granché, se non del relativo colorante, e non restavano che quei pezzetti di gomma a giustificare l'acquisto di un gelato che, una volta finito, non poteva neppure essere usato come arma. Senza volerlo, la Pantera Rosa era una riuscita parodia del consumismo fine a se stesso ed è un peccato che non ricopra ancora un ruolo significativo nella dieta del nulla di tante ragazze e ragazzi contemporanei, eredi di quelli che lo conobbero per la prima volta trenta o quarant'anni fa. L'unico caso di gelato non confezionato che entra di diritto nel novero dei freak autentici è l'infame gusto Puffo. In effetti si tratta di un caso particolarmente atroce: il suo aspetto non presuppone, infatti, una semplice affinità cromatica con la pelle dei piccoli esseri antropomorfi, frutto della fantasia del fumettista Peyo; bensì una sovrapposizione con le preferenze alimentari di Gargamella, il loro acerrimo nemico. In altre parole il gusto Puffo non è mai stato un vago omaggio alle omonime creature, ma la concretizzazione del sogno dello stregone-alchimista di ridurre i Puffi in poltiglia e di mangiarli. È esistito perfino un Puffo Ghiacciolo Sammontana: il principio era lo stesso ma l'esecuzione, se possibile, ancora più perfida. La materia prima bluastra, una volta maciullata, non era lasciata allo stato informe di una crema, ma veniva ricomposta in foggia di Puffo congelato, più o meno a dimensione naturale, per la gioia degli epigoni di Gargamella di tutta Italia. Quando è troppo è troppo: durò solo un'estate. Fu prontamente sostituito da due versioni alternative di cui una all'arancia, nelle fattezze di Grande Puffo e una al limone, in quelle di Puffetta. Ci sono gelati fricchettoni completamente dimenticati, come il Gigolò Sammontana, stecco che incarnava tutti i disvalori degli anni Novanta, tra cui quel delicato accenno nominale alla prostituzione maschile; con il suo involucro di cioccolato bianco che ricordava un doppiopetto da Miami Vice con tanto di maniche rimboccate sull'abbronzatura, lampadatissima, che faceva capolino dal ripieno color aragosta. Ce ne sono altri che, pur non essendo più disponibili da lunghi anni, sono rimasti nella memoria del pubblico più nostalgico, come il Piedone Eldorado e la sua deriva feticista o i suoi colleghi di scuderia dedicati a Topolino e Pippo, dai tratti talmente deformati da costituire una variante zombie dei personaggi Disney di riferimento. Quest'ultima tendenza ritrattistica ci porta a una serie di domande che fanno capo a una perplessità generale concernente i gelati figurativi e, in particolare, quelli che rappresentano animali d'affezione o beniamini pop di varia estrazione e riconoscibilità. Basta pensarci attentamente una sola volta e il danno è fatto: nessun gelato a forma di Super Mario o Prezzemolo (la storica mascotte di Gardaland) sarà più lo stesso. Siamo sicuri che il principio creativo di far rassomigliare a un proprio beniamino zoomorfo o umanoide un dolce che mettiamo in bocca e, più o meno lentamente, annientiamo a colpi di lingua, sia del tutto sano di mente? Il disfacimento mediante saliva sarebbe tutt'al più accettabile se attuato ai danni di un cattivo, non di un eroe positivo. Eppure non esistono e non sono esistiti gelati a forma di Voldemort o di Scar, con l'eccezione forse solo dell'acerrimo Squalo Eldorado, di estrazione spielberghiana, che, in caso di attacco, lasciava la lingua blu per ore (se non per giorni).

Come la mettiamo con gelati come il tenero Koala Sanson? Quando approcciavamo coi denti la sua zampetta rattrappita eravamo noi il predatore della situazione? Perché dovrebbe essere in qualche modo desiderabile squagliare l'Olaf Algida nella nostra bocca, sottoponendo l'apprezzato fautore della linea comica di Frozen a pene indicibili anche per un pupazzo di neve che affermi di amare l'estate, ma che nessun incantesimo potrà salvare dall'azione dei nostri succhi gastrici? C'è in noi un retaggio valoriale del cannibalismo quando, consumando uno Spider-man Algida alla fragola, il nostro inconscio potrebbe ritenere di stare assumendo la forza, l'agilità, i riflessi del supereroe Marvel? Di certo non può essere semplicemente fame o caldo, perché altrimenti mangeremmo una piadina o un semplice ghiacciolo in stile geometrizzante (o assiro-babilonese, tipo Lemonissimo). Chissà quando queste domande troveranno finalmente una risposta che non sia sintetizzabile in una citazione di Sigmund Freud o in un ritornello di Cristina D'Avena. Nel frattempo, studiamo anche il presente. Infatti, non tutti i gelati freak sono necessariamente creature di un passato che ritorna negli incubi o nelle pagine Facebook dei millennial più anziani. Alcuni degli stecchi e dei ghiaccioli non ortodossi attualmente in commercio potrebbero venirci incontro, fornendo soluzioni a istanze del passato. Ad esempio, degno successore dei casi più clamorosi della storia del genere dolciario che abbiamo preso in esame, nonché possibile vincitore assoluto dell'estate 2021, potremmo citare qui il Calippo di Star Wars, al gusto mirtillo, il cui tubolare riproduce in grafica l'elsa di una spada laser. Questo prodotto, frutto dell'intuizione di un nerd geniale quanto goloso, di cui vorremmo tanto conoscere il nome, ha un merito fondamentale. Ha trasportato il Calippo ad anni luce dai crudeli sfottò che tradizionalmente sono rivolti agli adulti che lo consumano su pubblica piazza. Grazie goloso nerd anonimo di aver dimostrato così eloquentemente che il Calippo è sempre stato una lightsaber, sebbene in colori non convenzionali, e che chiunque vi dica il contrario mente. Il Calippo di Star Wars, così, è l'arma perfetta per affrontare la battaglia finale sia contro il caldo che contro le malelingue.