Si è fatto subito notare in rete il profilo Instagram @jedisnonchef. Quando comincia a pubblicare, in modo anonimo, delle testimonianze su quello che succede nelle cucine dei ristoranti. Dietro la tastiera, Camille Aumont Carnel, habitué dei social network dagli account femministi, che ne denuncia le pratiche sessiste. Da abusi verbali volgari – “per salire di grado bisogna *******re e stare zitta” - fino ad agghiaccianti testimonianze che rilevano del diritto penale. “Gli uomini si fanno picchiare, le donne si fanno palpeggiare” racconterà una direttrice di agenzia di comunicazione specializzata nella gastronomia al quotidiano Libération. Intanto, sul profilo Instagram, le testimonianze incalzano: "Sono stata seguita dopo il mio servizio fino a casa mia perché – e cito – 'ti posso violentare più discretamente'", si legge su un post; "Il mio capo mi raggiungeva nella cella frigorifera e mi chiudeva dentro per poter abusare di me", se ne legge su un altro. "Il mio capo che mi diceva quasi tutti i giorni 'così finisce che ti violento'” racconta un terzo. E, spesso, la configurazione stessa del luogo di lavoro chiama gli abusi: un post ricorda quei "ristoranti dove non ci sono spogliatoi e bisogna cambiarsi davanti a tutti”. In Francia, per le donne in cucina, la vita professionale non sembra facile: "Il mio capo che continua a chiamare tutti gli uomini del team con il loro nome e io sono chérie da 4 anni", sottolinea infine un post, evocando una condiscendenza professionalmente sminuente. Eppure, dopo aver raccolto circa 200 testimonianze, l’account che totalizza oltre 36mila followers si addormenta, ormai da oltre 5 mesi.

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E in Italia? I “casi di violenza appartengo forse a un’altra generazione” commenta Cristina Bowerman. Se la chef di Glass Hostaria a Roma (una stella Michelin) dipinge un quadro meno nero da un punto di vista di violenze, non è certamente altrettanto ottimista nell’evocare, a suo parere, un gender gap ancora fortemente presente nelle cucine, “come in tanti altri universi professionali”. “In Italia a mio parere, – spiega Cristina – la galanteria maschile maschera qualcos’altro. In inglese si dice patronizing, questa forma di dire [di una donna] 'sei caruccia' oppure anche 'guarda com’è brava questa ragazza'. Per me – continua la chef – questo atteggiamento vuole avvalorare l’immagine della donna 'gentile', accompagnata dal sottotitolo che non possa essere altrettanto forte e capace che l’uomo”. Un gender gap ben impiantato, quindi, e l’onnipresenza del corpo femminile, che entra in gioco anche quando non dovrebbe. Per la Bowerman, c’è “ancora molto questa mentalità”, per cui la figura professionale della donna è sminuita e svalorizzata commentandone “il suo aspetto fisico”, un modo di ridurre la professionista al suo corpo piuttosto che alle sue capacità. “Io porto i capelli rosa; quando mi vogliono attaccare come professionista non parlano dei miei piatti ma bensì puntano del dito il colore dei miei capelli! - dà come esempio la chef pugliese - Mentre quando si critica un uomo, lo si fa parlando delle sue azioni”, tiene a sottolineare. “Il problema è che in posizione di potere ci sono ancora le vecchie generazioni, vedremo l’avvento di una mentalità diversa con le nuove generazioni ma parliamo ancora di una cinquantina d’anni” conclude. Una frattura generazionale evocata anche da Marianna Vitale, a capo del ristorante una stella Michelin SUD. Anche per la chef napoletana un certo tipo di comportamento appartiene alle “vecchie generazioni in cucina”. “Io ho 40 anni – continua – le persone che lavorano con me ne hanno tra i 20 e i 30. Sono cresciuti con l’idea che la differenza di genere non esiste e credono nell’individuo. E d’altronde, professionalmente parlando, non hanno scelto la donna-cuoca, ma hanno scelto me, Marianna”. Se bisogna senza dubbio avere “una presenza più forte [delle nuove mentalità] nella classe dirigenziale”, la chef di SUD si dice “fiduciosa” perché “la generazione di soli 20 anni dopo la mia ragiona fortunatamente in modo completamente diverso”.