Quanto (ci) costa un'alimentazione sostenibile, o quasi
Mini-viaggio a zero impatto tra i marchi del food che integrano e sviluppano programmi di sostenibilità a lunga visione.
I marchi food sostenibili sono sempre di più, e questa è la prima buona notizia. In un'industria come quella agroalimentare, che dalla filiera produttiva ai banchi del commercio al dettaglio è tristemente nota per essere una delle più impattanti, i comportamenti virtuosi delle aziende sono imitati in modo sempre più frequente, con l'innesco di un valoroso circuito di idee nella ricerca della sostenibilità reale. L'Agenda 2030 dell'ONU, con i suoi 17 obiettivi da perseguire, parla chiaro: lo sviluppo sostenibile si basa su crescita economica, inclusione sociale, tutela dell’ambiente. Impossibile utopia? No. Sappiamo bene che non è scontata, immediata o automatica: riconvertire un sistema intero richiede tempo e investimenti. Né l'ottimismo spinto né la negatività da "non ce la faremo mai" contribuiscono al dibattito, i dati invece sì: al convegno Osservatorio Packaging del largo consumo organizzato da Nomisma e Spinlife (spin-off dell’Università di Padova), è stato stimato che le cifre sugli imballaggi in Italia hanno toccato numeri record con 2 milioni di tonnellate prodotte, circa 43 miliardi di pezzi. Di questi, circa i 3/4 sono destinati all'industria del food&beverage, con ricadute notevoli sull'ambiente. Imballaggi per la conservazione degli alimenti (frutta e verdura principalmente), contenitori di liquidi (le bottiglie di plastica per le acque minerali su tutti), o semplici pack da confezione (come nel caso di biscotti e merendine). Sono questi i principali punti su cui cercano di lavorare le aziende del food sostenibile. Che si scontrano però con una necessità ambigua: i dati dell'Osservatorio 2020 riscontrano che il packaging è sempre di più un elemento importante di decisione di spesa per i consumatori attenti, anche se si cerca di comprare prodotti con meno imballaggio o affidarsi al plastic-free. Ma c'è anche la reticenza allo spendere qualche centesimo in più per sostenere la produzione di imballaggi meno impattanti: per il 99% dei consumatori è un dovere dell'industria e dei retailer investire e sperimentare con packaging a basso impatto ambientale (e le lunghe polemiche sul pagamento dei sacchetti biodegradabili al supermercato lo hanno evidenziato in modo chiaro). E l'altro campo d'azione (è il caso di dirlo) della sostenibilità food è la filiera produttiva. Lo storytelling forte e gentile sui contadini è molto bello, ma è impossibile essere davvero a km zero in realtà metropolitane dalla superficie gigante. E i consumatori, in fondo, lo sanno bene. Per questo anche le aziende hanno iniziato a riscrivere i propri codici etici, rinunciando alla facile filosofia della radicalità estrema per essere più aderenti alla vera realtà: una filiera corta e antispreco in tutte le sue fasi è più sostenibile di uno sbandierato km zero.
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