Due catastrofi mi hanno reso il mostro che sono, la prima fu dovuta alla frizione. Nel 1989, mentre pressappoco cadeva il muro di Berlino, durante l’intervallo me ne stavo bocconi sulla cattedra in formica delle orsoline di Ferrara, ondeggiando il bacino. Com’è come non è, mi partì dall’inguine una sensazione che subito si propagò fino al tuorlo del cervello e all’albume delle unghie e che, molti anni dopo, avrei scoperto chiamarsi orgasmo. Ma per metà dell’era Eltsin - sono arrivato sempre dopo, senza mai credere a quello che diceva papà, che i frutti tardivi sono i più dolci - lo chiamai massaggino, convinto che il massaggino fosse un mio segreto esclusivo e miracoloso, che mi differenziava dai compagni di classe. E i genitori lì a mettermi un cuscino sul pavimento in modo che potessi massaggiarmi meglio.
Imbrattare i quaderni
La seconda catastrofe si verificò due anni dopo, mentre l’abolizione dell’Apartheid scatenava la criminalità in Sud Africa ma non sovvertiva il disumano rapporto economico tra minoranza pallida e maggioranza scura. Chissà come, m’innamorai. Di questa ragazza con la fronte rigonfia come un guscio d’arachide e quelle carni che se le gratti restano rosse per ore. E rimasi innamorato di lei per tre anni. Ottima scusa per l'orgasmo rasoterra, per sentirmi ancora più speciale, per piangere, per imbrattare un quadernino con “mari in tempesta” e “cieli stellati”. Un giorno l’amica grassa e buontempona – tutte le esistenze sono commedie plautine con maschere ricorrenti – mi portò un anello in cui era incastonato un pezzo di plastica rossa, dicendomi di dargli un bacio perché gliel’aveva dato anche Viola, questo era il nome della arachidocefala. Così scoprii che il mio sentimento era corrisposto e accarezzai per la prima volta l’idea del suicidio. M’ero abituato a tornare a casa finito il doposcuola e, ascoltando la sigla dei Power Rangers, che chissà perché percepivo malinconica quanto il ricordo dell’utero materno, piangevo e pensavo a come il mio sentimento fosse puro, a quanto il mondo fosse ingiusto, e giù a scrivere di camini in inverno e fiori nel vento. Ma ora, dopo la storia del simil rubino, non potevo più incolpare il mondo, perché il mio più grande desiderio era stato esaudito, anche se la sua realizzazione non aveva avuto conseguenze e tutto era ripetitivo, diafano come sempre, come sarebbe sempre stato, capii.
Eppure anche ora me ne stavo sul letto indeciso se provare un orgasmo fai da te, in fase digestiva dopo una pasta col sugo confezionato – in questo sono bravo: proporzionare un quarto di barattolo di ragù a un quinto di pacco di pipe rigate – ed eccomi qui. Aspetto da un paio di riviste la risposta per pezzi che ho inviato. Ma i figli di puttana – chiunque non ami solo me ha una madre che ama tutti – sono troppo impegnati a rispondere ad altri. Scrivo per scaricare l’ansia per le conseguenze di quel che ho già scritto. È una cosa malata. Come ammazzare il testimone di un primo delitto commesso, poi il poliziotto che indaga sul caso, poi i passanti, e gli amici dei passanti, si sa mai, e i cani che ti seguirebbero scodinzolando e i marmocchi che ti hanno riconosciuto con i loro occhietti ebeti e che si vede benissimo che i genitori ti ucciderebbero per salvargli la vita, quindi via anche i genitori. Et voilà un romanzo.
Sogni di Gloria, nuda
E continuo a batterli, i tasti del mio Packard Bell, allora mi chiedo: che ogni generazione abbia avuto il sospetto di essere arrivata troppo tardi? La storia ha il ritmo del reggae, quasi quasi perde ogni volta il giro. Ma si sopravvive e si fanno figli e poi si muore, in fondo tutte le generazioni riescono in questo e passano la staffetta: “Ci capiscano loro qualcosa”. Ma qui, immerso nella penombra – primo piano sull’angusto cortile interno – di un bilocale che ho riempito di paccottiglia per illudermi che il kitsch sia sinonimo di estro e, quando sono sbronzo, di genio, voglio anche illudermi che la generazione V – la penultima lettera dell’alfabeto, cioè l’ultima di chi per alzarsi, far colazione e lavarsi i denti ha ancora bisogno dell’idea di un dopo – sia speciale. Voglio illudermi che il ritardo ci renda unici, come la libertà sessuale dei sessantottini, l’edonismo degli yuppy, l’immunità alla malaria dei microcitemici e la gobba del naso di Cleopatra.
Per i sogni di gloria della finanza è tardi e i miei coetanei, cresciuti nel mito di Gordon Gekko, selezionano con cura cravatte – lingue a penzoloni di chi vede il piatto della torta svuotarsi – che hanno perso di credibilità come le armature dopo la scoperta della polvere da sparo. È tardi per fare gli astronauti perché ormai è chiaro anche ai mocciosi che lassù non c’è nulla che non si possa guardare con Google Earth salvandosi dall’osteoporosi da gravità zero. Per l’Europa – questo continente che non ha neppure la decenza di una forma – è tardissimo e anche l’America s’è attardata nella toeletta, nonostante avesse giocato la carta di un presidente negro, ma non troppo. Che eleggano un cinese, anzi, meglio, E.T, o un idrocefalo e itterico che potrebbe passare per marziano, se vogliono davvero convincere il mondo di essere ancora on time, come si dice per guadagnarsi una scopata. È tardi per fare il prete, perché contro il Male si lotta con l’agopuntura, tardi per vedere i Buddha di Bamiyan, distrutti dai montanari afghani, tardi per il lupo marsupiale e il dodo, ma purtroppo non ancora per i panda, carnivori così cagasotto che hanno preferito ingozzarsi tutto il santo giorno di fogliame indigeribile piuttosto che avventurarsi nella caccia. È tardi per avere un orgasmo con Marylin Monroe e Freddie Mercury, a seconda dei gusti, è tardi per scopare senza preservativo, è tardi per chiudere una moglie in casa e andare al bordello con la coscienza pulita.
La catastrofe della scrittura
La Vigilia di Natale
Il pubblico si allargò a tutto il parentado quando, la vigilia di Natale del ’92, mentre in Somalia le pance scoppiettavano di stelle filanti rosse e si stappavano i culi, decisi di comporre una poesia per ogni invitato. La nonna grassa, la zia pelosa, il cugino commercialista, perfetto, senza dettagli caricaturizzabili e, per questo, indicibile e odioso.
“Sì, non male” disse.
“Non male? – pensai trastullandomi le palline – Come per dindirindina si permette?” – la rabbia è ridicola finché non si supera il tabù delle parolacce.
E i genitori ti guardano con aria complice, come per dire che non ne capiscono un cazzo, quegli altri, del tuo talento, e tu sai che il ramo della tua famiglia è quello buono, perché avete la casa più in ordine e i soprammobili più di gusto e le merendine di marca e i genitori, al di là delle scopate con babysitter e colleghi, ti stanno crescendo meglio di come i loro fratelli crescono i cugini, quindi devono avere ragione loro.
La catastrofe di una generazione
Ecco, è per colpa di questo schifo che le accademie e le facoltà di lettere e di scienza delle comunicazioni e di architettura e di filosofia hanno sfornato falliti lamentosi e sacrosanti disoccupati, per colpa di questo schifo sono all’undicesima sigaretta perché Mario Visentini (il designer che ha creato i celeberrimi appendiabiti a forma fallica di cotenna suina disidratata) non mi invia le risposte per La Ville Lumiére e Tombeur de Femmes non mi dice se mi pubblica l’intervista impossibile al D’Annunzio che aveva soprannominato il proprio cazzo Monachello di Ferro. Pasquale Esposito, premio Strega e mio Maestro alla scuola di scrittura creativa Oliver Twist – lui per primo non voleva essere chiamato così mai i settemila seicento euro di retta annuale ti proiettavano a forza in una dimensione esoterica – mi diceva che il mondo, in una forma o nell’altra, avrà eternamente bisogno di parola scritta.
Ma è inutile nascondersi dietro a un dito: tutti noi, tranne i due o tre veri talenti che si concede ogni generazione, non siamo diversi dagli odiosissimi panda, solo che siamo molti di più. Siamo troppo cagasotto per rassegnarci alla nostra giusta sorte di operai, muratori, periti elettrotecnici o pizzaioli, e passiamo tutta la vita a ruminare lamentele, illudendoci che un giorno un mecenate illuminato ci guarderà in faccia, e ci dirà “tu sei un genio”, regalandoci finalmente la sazietà. La depressione, il senso d'impotenza, l’angoscia, la consapevolezza del fallimento, la tossicodipendenza, svolgono la funzione che dovrebbe svolgere un WWF più responsabile: impedire, in questo caso tramite suicidi, overdose e TSO, che passi falsi evolutivi si riproducano e lascino una qualche traccia del proprio passaggio nell’universo. Eppure, eccomi qui.
...TO BE CONTINUED
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