11 Settembre 2001: la fine di un'epoca

Dopo la Maturità andai in vacanza a Barcellona con gli ex compagni. Seguimmo un paio di eroinomani calabresi nella zona franca della città, Can Tunis, a bordo di un autobus gratuito, il 36, con le siringhe conficcate nei sedili e un tale che si scrostava le pustole lamentandosi perché “lei non smezza mai la dose”, alla ricerca di qualche grammo di cocaina. Li tirammo tutti, la sera ci facemmo pestare da dei poveri scandinavi a cui, per un buon chilometro di Ramblas, avevamo rotto i coglioni brandendo lunghi tubi di gommapiuma scovati nell’immondizia perché i vichinghi c’avevano fottuto poco più che immaginarie fidanzate, e rimediai un setto nasale rotto e tre punti sulla guancia. Il giorno dopo, assorbito dalla paura della commozione celebrale – mia mamma m’aveva sempre detto che si manifesta entro 48 ore, facevo il conto alla rovescia: del bravo ragazzo avevo tutti i difetti – fui rapinato da due magrebini con taglierino alla mano che mi lasciarono in mutande. Al mio ritorno fu quindi semplice fondere i due episodi nel racconto ai miei genitori: m’ero fatto picchiare per difendere l’orologio d’acciaio che m’avevano regalato per Natale. “Vieni qui, tesoro, l’importante è che sei vivo”, riabbracciarono il mio viso tumefatto con tanto ottuso affetto parentale proprio il giorno in cui un paio di Boing 767 penetravano nelle Torri Gemelle come nel burro e mettevano fine a qualche migliaio di vite, e a un’epoca.

Movimento no-global: sentirsi dalla parte del Bene...

Dicevo che mi ero iscritto scienze politiche perché avevo fiutato nell’aria l’odore pluviale del cambiamento, ma mentivo. Mi iscrissi lì perché Martino, un mio ex compagno del liceo incontrato al supermercato, con una cassa di Heiniken tra le braccia farfugliò: “Iscriviti anche tu, c’è un po’ di tutto, se non sai cazzo fare è il male minore.”

Forse sarei stato ancora in tempo per frequentare qualche corso professionale, per diventare un onesto metalmeccanico o carpentiere, ma per farlo serviva un paio di testicoli, attributo del quale, contrariamente a quanto m’aveva assicurato l’urologo che m’aveva allungato il frenulo, non ero provvisto.

A Bologna c’era qualche deleterio buon professore, in grado di fomentare l’illusione che potessi campare per sempre sereno fumando erba e straparlando di come e perché il mondo potrebbe diventare un posto migliore. Pasquino, Ceccanti, Panebianco e Poggi, il mio preferito, un ex-prete, spretatosi perché, ammalato di cancro, sentì il vicino di letto d’ospedale bofonchiare “dio boia”, si disse “per bacco, ha ragione”, quindi si fece buddista. Artemi e Tedesco, per appassionare gli studenti al loro trascurabile corso da cinque crediti formativi, ribadivano che s’era appena vissuto un cambiamento epocale, con l’11 Settembre, e la nostra generazione aveva davanti una sfida altrettanto epocale. Ci portarono a vedere Matrix e lo interpretarono con la Scuola di Francoforte. Marcuse & Co – l'immaginazione prima ministra e la Redenzione mezzo guerriglieri animisti e bombe carta – mi parvero il punto di convergenza perfetto tra Nietzsche e Bob Marley, quindi, per un breve periodo, provai una sensazione che chi non è affetto da un serio disturbo paranoide può provare solo prima dei vent’anni: mi sentivo dalla parte del Bene.

Si viveva l’era gloriosa del movimento no-global. Agnoletto mi sembrava un pretiforme impiegato del catasto e Casarini un bovaro incazzato col mondo perché le sue vacche producevano latte rancido – erano i due leader del movimento – ma ebbi finalmente la sensazione di essere parte di qualcosa. Erano tornati di moda gli anni ’70, si vestivano pantaloni alla gitana di cotone grezzo, a strisce verticali colorate, si scarabocchiavano murales che inneggiavano a Carlo Giuliani, ucciso dalle forze fasciste al G8 di Genova (anche se i graffiti reazionari erano i più allegri, sinceri, in qualche modo; questo in via Petroni: “Atomica sull’Islam razzista” e quest’altro in via Broccaindosso: “Il mullah non sarà per nulla contento”). Così scrissi una poesia chiamata, manco a dirlo, Pensiero negativo. Diceva qualcosa come “sarò il primo pesce ad annegare e blà blà blà, sarò la prima pila che, in mezzo a mille pile girate nello stesso senso, si volterà: energia.” Sul momento non solo non mi vergognai, ma ebbi addirittura la faccia tosta di ricavarne uno pseudonimo, Alip, cioè pila al contrario e che però, a mia discolpa, mi fruttò un paio di sedute di petting nei bagni di facoltà con quelle ragazzine con gli occhi verdi carichi di ideali, quelle capaci di votarsi al terrorismo in nome degli scoiattoli bullizzati dalle martore, o di diventare caporedattori.

...ma la verità è che sono cattivo

Al primo esame, diritto pubblico, fui bocciato, il che mi fece sospettare che non sarei mai riuscito a passarne uno. Ma il futuro mi sembrava ancora qualcosa di distantissimo, qualcosa come un punto geografico da qualche parte verso la Kamčatka e non un tizio che ti viene a cercare e prima o poi ti trova, che non riuscii a preoccuparmene. Riprovai dopo Natale, strappai un 21 e un “lei è molto bravo ad arrampicarsi sugli specchi”, e, all’esame successivo, proprio sociologia, recitai Pensiero negativo. Fulvio Tedesco, giovane, sovrappeso e con un tic agli occhi che li faceva rimbalzare nelle orbite come palline da flipper, dopo aver commentato la mia collanina rasta con “Hailé Selassié!”, che per me più che essere il negus che aveva respinto i fascisti era una scusa per riempire di senso etico la marijuana, disse “bravo, preparato, e anche poetico, 30 e lode” e io, paonazzo, attento a tenere lo sguardo al di sopra degli altri esaminandi e molto più in alto di tutte le cose umane, provai di nuovo i brividi del fanatico.

Un’altra poesia, Differenza di punti di vista, iniziava “Tu che hai deciso di lasciarti vivere piuttosto che essere l’eterno inventore di te stesso”, si rivelò invece formidabile per rimorchiare le tipe in discoteca. Fu in un bugigattolo tra Ferrara e Bologna, l’Arlecchino, dove suonavano musica funky e ci si potevano fumare dentro le canne, “come negli anni ’70”, si diceva. Era bionda e si mordicchiava le labbra. Con la lingua ingrossata dai coca e rum e il gomito appoggiato sul bancone studiai le giuste pause. Dopo il “tu”, per esempio, in modo che capisse che quello non era un tu generico, ma quel tu era proprio lei. Poi la poesia poteva dire qualsiasi cosa, bastava che ci fossero in mezzo certi paroloni dei quali non era sicura di conoscere il significato, come “apatia”, e il gioco era fatto. Quando tornai dentro al locale avevo la mano insanguinata, non m’aveva detto d’avere il ciclo, e, mostrandola sotto la sfera specchiata, ebbi la mia vendetta su chi anni prima m’aveva fatto annusare l’odore di figa sul medio, una rivincita folle e grottesca, perché io ero un poeta.

Scrivevo di giorno, soffiando il fumo verso gli abbaini della mansarda, e la sera leggevo le mie composizioni poetico-filosofiche al povero Martino. “Dovresti farne qualcosa di più che un passatempo. – commentò una sera, mettendosi in bocca una manciata di patatine in preda alla fame chimica – Hai delle immagini mica male”. Fumavamo, buttavamo su un film, che io guardavo con insofferenza perché, appena finiva, prendevo il quaderno – dicevo che scrivere col computer faceva perdere il contatto con la materia della scrittura, la Lingua, ma in realtà mi sembrava più faticoso premere i tasti che muovere la biro – e massacravo il mio amico di metafore pompose che fingevano di dire molto più di quel che dicevano.

Ma mio padre è sempre stato il mio vero, unico lettore, semplicemente perché è mio padre, un padre, per di più, con la coscienza sporca, dal momento che aveva tradito la mamma quando io ero poco più che un neonato, condannandomi a una di quelle infanzie piene di grida, piatti rotti e unilaterali richieste di alleanze affettive che ipotecano un buoquet di future nevrosi. Tornava dal lavoro in tarda mattinata e, prima di andare al tennis, passava in camera mia (facevo in modo che la cappa di fumo a quell’ora si fosse già diradata). Senza alzarmi dal letto, leggevo rabbiosamente e aspettavo i complimenti che dovevano arrivare. E arrivavano, perché lui aveva troppo bisogno della rassicurazione che, nonostante tutti gli errori che fisiologicamente i genitori commettono, suo figlio potesse dimostrare passione per qualcosa.

Io invece avevo questo problema: non potevo permettermi di essere infelice. Non ricordo seguendo quali astrusi ragionamenti o deliri filosofici fossi arrivato a questa conclusione, fatto sta che tutte le mie poesie dovevano ribadire questo concetto: che la decadenza della società ti voleva far essere triste mentre io, il diverso, stavo proprio benone. Ma fumavo e mi prendeva sempre più spesso un’ansia che speravo di svenire, piuttosto che mi pigliasse un infarto. Un giorno, non più di un anno dopo l'11 Settembre 2001, ne avevo fumata una di marijuana indoor idroponica, potentissima, e mi obbligai a convincermi che quella sensazione fosse ancora paradisiaca, che la mia esistenza fosse tonda come una fede nuziale e, puntando l’indice verso una mia foto di bambino sorridente in tenuta da marinaretto appesa sopra la porta del cesso, mentre lo stereo cantava “In the victory of good over evil” di War di Bob Marley, esultai col pugno serrato perché tutto trovava una sintesi in quell’attimo di riappacificazione con me stesso. Non credevo a nulla, stavo da cani.