Scoprire di essere cattivi

L’anno in cui Bush definì Iran, Iraq e Corea del Nord “asse del male” per me il Male era diventata una cosa seria. Negli occhi di Bin Laden in tv vidi il Diavolo e mi pigliò un attacco di panico

Andai a festeggiare il capodanno a Roma con due amici, Trullo e il Capo. Trullo aveva messo la macchina, una Mini Cooper di sua mamma che faceva gli ottanta a tavoletta e che si surriscaldava ogni cento chilometri. Ci dovevamo fermare sul bordo della E45 e i camion facevano vibrare la carena come una foglia. Le montagne appena appena innevate, come per sbaglio, il furgoncino che vendeva panini con la porchetta affettata grossa, e sembrava proprio quello che era, cioè un pezzo di maiale morto: tutto mi sembrò perfido e ostile. Il Capo aveva messo la casa, in largo Argentina, suo padre era parlamentare di Rifondazione Comunista. Anche questa cosa mi faceva sentire cattivo perché io venivo da una famiglia di destra e la contestazione, perché potessi accettarla veramente, doveva essere estrema e impossibile: o la villetta a schiera al mare o la Rivoluzione, non c’erano vie di mezzo tra il Rotari e le molotov. Il Capo mi parlava di cose concrete come l’articolo 18, così io urlavo in faccia ai miei genitori che erano dei borghesi di merda. In quel viaggio stavo nel sedile posteriore. Dicevo che lo preferivo, come un vezzo. In realtà ero inferiore gerarchicamente al Capo, che aveva la voce da baritono e un pene enorme. Da lì dietro, presi foglio e penna e scrissi una poesia sul male che mi osservava da dentro e sulle cornee di Satana. Non mi servì a stare meglio, ma a forza di modellare il mio personaggio a colpi di stramberie mi guadagnai una dignità che, nel viaggio di ritorno, mi avrebbe consentito di godermi gli attacchi di panico nel posto del morto.

Il mio ex professore di filosofia del liceo l’avevo sempre ammirato perché di cognome faceva Sega e, la prima volta ch’era entrato in classe, aveva esordito: “Attenti, sono un uomo di polso.” Un giorno ci siamo visti per un caffè. Non sopportavo che non mi avesse chiesto di dargli del tu, nonostante lui stesse sorseggiando un latte caldo e io un caffè ristretto che è molto più da uomo bello che fatto, ma mi ricordò che nella filosofia di Heidegger l’angoscia ha una dignità metafisica ineguagliabile. Mi fissai con Heidegger. E hai voglia a leggere quegli scioglilingua in tedeschese strafatto di erba. A un certo punto sollevai la copertina di Essere e Tempo e bucai la fronte alta e rugosa del così detto “Maghetto di Meßkirch” con una matita.

Quando auguri la morte a qualcuno

Nel periodo in cui Colin Powell, il nero, ma non troppo neanche lui, mentì come un bianco agitando in mondovisione una fialetta che, invece dell’antrace, conteneva la sua forfora, pubblicai i miei primi versi. Su una rivista ferrarese di poesia, Rimastialmondo, in cui ogni sorta di eruditi falliti, bibliotecari scalzacani, ubriaconi e massaie isteriche della provincia trovava attimi di popolarità – limitata alla stessa cerchia di massaie e ubriaconi. Accanto al Duomo, fuori da un bar, avevo visto un gobbetto dalla fronte sudaticcia che straparlava versi col mento affondato nel pastrano. I ragazzini attorno a lui sghignazzavano.

“Anche io scrivo poesie” dissi ubriaco, convinto di capire qualcosa che quegli altri non capivano.

“Che roba scrivi?”

“Scrivo di panico e d’inferno. Tu?”.

Diede le spalle al gruppetto di ragazzi, che presero a parlare di una tal Giorgia che coi capelli corti era più brutta ma più zoccola, e recitò: “Alice, tu che ti sei persa nell’astronave tra le meraviglie intergalattiche…

Finito, io dissi: “Che bella”.

Lui mi chiese se volevo conoscere Debora, “un genio generoso”, responsabile della rivista.

La incontrai in Biblioteca Ariostea. C’era una conferenza dello scrittore Alberto Alienati, il Maestro, per tutti loro – apprezzato soprattutto per un poema in cui la Gran Principessa Anastasia si masturba con un uovo Fabergé prima di essere massacrata dai bolscevichi. La conferenza sarebbe iniziata dopo qualche minuto e, per ingannare il tempo, nel cortile si era formato un trenino di leccate di culo. L’ubriacone lo leccava alla tipa per farsi pubblicare qualcosa, “mettila nel prossimo numero che è corta”, e la tipa ad Alienati, la locomotiva, “Maestro qui, che carattere shakespeariano Anastasia, Maestro là”. Debora era una quarantenne in cerca di cazzo-salvagente e aveva un alito da scarsa salivazione. Mi chiese che cosa facessi. Le recitai un paio di poesie sul panico e le dissi che frequentavo un corso di scienze politiche: culture e diritti umani. “Che bello!”, fece gli occhi ispirati, il genio generoso. Così, quando Alienati ebbe finito di illuminare la platea – “premersi un uovo su per la pussy pussy simboleggia archetipicamente una maternità a ritroso, un contrappasso antiprocreativo” sic! – la tizia mi chiamò sul palco.

Per nulla fiero della mia altezza – come invece mi consigliava papà – anzi, ingobbito, mi apprestai a vedere l’effetto che facevano le mie composizioni al cospetto di un pubblico di estranei.

“Ecco, – il genio generoso mi mise un braccio sulle spalle– Gastone ci racconterà il suo interessantissimo corso di laurea.”

L’indignazione è il sentimento più difficile da manifestare. Levarmi di dosso il suo braccio come un serpente velenoso? Scandire un sobrio “fanculo, tu e quella gran troia di Anastasia”? Infilare il microfono nel culo di Alienati come un Fabergé a impulsi elettromagnetici? No, bofonchiai quel che facevo, a testa bassa, arrossendo, e me ne tornai a passi corti, radente al muro, ad autocastrarmi con gambe accavallatissime in ultima fila. Le augurai la morte e mi si scatenò un attacco di panico da farmi scappare a casa, da farmi infilare la testa sotto al cuscino, sparire.

Fidanzarsi per limitare gli attacchi di panico

Pensavo di produrre filosofia, con le mie poesie - era meno faticoso che cimentarsi in un trattato - ma in Heidegger lessi qualcosa del tipo: “Il pensatore e il poeta stanno alla stessa altitudine, su cime distantissime.” Cime distantissime? L’idea, ovvia di per sé, mi precipitò nello sconforto. Le due cose non erano identiche. Quindi c’era da scegliere, attività per la quale non sono mai stato portato. All’epoca leggevo più filosofia che letteratura: la cosa più naturale era scimmiottare quel che leggevo. Sarei diventato un grande filosofo. Smisi di fumare le canne, che mi facevano sentire tutto il fuoco del diavolo nel cervello, e per compensare, perché quel tempo andava riempito, mi fidanzai.

Conobbi Emma in discoteca, le recitai la cara vecchia Differenza di punti di vista e ci baciammo. All’inizio ci frequentammo sporadicamente. In compagnia sua – dolce, semplice, con una terza, belle labbra, innamorata – spegnevo il cervello, il panico se ne andava. Dopo qualche mese di frequentazione, “mettersi insieme” fu inevitabile. Sentivo di galleggiare su un abisso di angoscia e le sue coccole, il suo corpo famigliare, il linguaggio infantile col quale ci esprimevamo tra noi, erano diventati il surrogato degli ansiolitici. Così, una sera, sul bagnasciuga, dopo essere stato con una sconosciuta in una cabina, mi parve bello dirle “ti amo”.

A lei non leggevo niente di quello che scrivevo. Il tacito accordo era che tanto lei non ci avrebbe capito nulla, che il nostro mondo era nostro, e basta, non mio, non suo, che il mondo di tutti, l’università, gli amici, le poesie, le ambizioni, stavano fuori da quel letto, da quella camera, da quei sussurri. In realtà stavo diventando uno scrittore più decente e in ogni frase cominciava a delinearsi, più che un sistema filosofico, l’espressione della persona disgustosa che ero, e nessuna avrebbe potuto tollerare di condividere qualcosa con uno così.