Ogni storia deve avere un cattivo, e il mio è il Panico. Ogni protagonista deve avere un obiettivo, e il mio è la Gloria. Me lo ripetevo per farmi coraggio, mentre andavo in treno a Padova, per seguire i corsi di filosofia, e ogni cinque minuti tastavo la compressa di xanax nel portafoglio. Non l'ho mai presa, poteva sempre andare peggio: questa è la mia condanna e la mia salvezza.

In quel periodo indossavo una giacca in pelle dell'Hard Rock Cafè che mi aveva portato mia mamma da Los Angeles. Sapevo che era da sfigati, ma non avevo tempo per pensare all'abbigliamento, ero troppo impegnato a torturarmi.

Studiai un percorso, dalla stazione fino in Piazza del Capitaniato, che limitasse gli attacchi d’ansia. Sfiorare le mura della chiesa dei Cappuccini, girare a destra prima del caffè Petrocchi, assicurarmi che la farmacista bionda all'inizio di piazza dei Signori ricambiasse il mio sguardo, percorrere la stessa piazza fino a metà sotto i portici e poi uscire in corrispondenza del fornaio, puntando l'orologio del palazzo dei Signori, lassù, in alto e fermo: tutto questo mi dava la sicurezza di un incantesimo benigno. Era una questione statistica, se variavo percorso, invece di dieci, gli attacchi potevano essere venti, settantadue, diecimilioniquattrocentosedici.

Il mio ex professore del liceo, Sega, mi raccomandò ad Arnaldo Procioni, docente di storia della filosofia moderna, editorialista di Repubblica e del Frankfurter Zeitung, la stella della facoltà. La prima volta che lo vidi aveva una spilla a forma di civetta sulla giacca blu. Mi sembrò un'idea intelligentissima. La lezione era su Heidegger, una delle più belle a cui abbia mai assistito. Quando si fece odiare, così, per puro cazzeggio, da una delle solite ragazzine con gli occhi ispirati, fanatica della Arendt, dicendole che la filosofa non aveva raggiunto le vette di Heidegger – anche se c’era andata a letto – semplicemente perché era una donna, e sorrise, mi resi conto che l'unica maniera che avevo per non bruciarmi il cervello era tenere la mente immersa nelle sue lezioni e nelle sue freddure, in ammollo nelle categorie aristoteliche e nelle antitesi hegeliane.

Si narrava che Procioni si fosse fatto conoscere nell'ambiente accademico ritrovando un inedito di Schopenhauer. I parrucconi erano esplosi di entusiasmo e d’invidia finché Procioni non aveva ammesso che l'inedito era un falso scritto da lui. Fu prima condannato, poi riconosciuto come astro nascente.

Una tipografia di Ferrara mi aveva stampato gratuitamente una ventina di copie di aforismi su Dio, Disincanti. Un giorno ne portai una a Procioni. Seduto su un paracarro fuori da Palazzo Liviano lo aspettai come un sicario. “Posso darle questo?”

Lo sfogliò. "Vedi? – disse allo studente che lo inseguiva con un libretto accademico in mano – È così, per frammenti, che oggi si filosofa."

Io volevo che Procioni si concentrasse su come avevo consolato Dio dalla sua inettitudine, piuttosto che sulla frequenza degli accapo, ma di certo non lesse mai una riga.

Non c'è niente di più sporco di un'idea

Non davo confidenza a nessuno, ogni contatto umano poteva incrinare l'equilibrio che continuava a consentirmi di non impazzire. Nelle pause tra le lezioni fingevo di telefonare, poi mi sedevo in prima fila e alzavo spesso la mano.

L'episodio più memorabile di quell’anno – l'anno in cui morì Giovanni Paolo II, il Milan si fece recuperare tre gol nella finale di Istanbul, New Orleans fu distrutta da un uragano ma gli Usa si presero la rivincita di toccare le mille condanne a morte dalla reintroduzione della pena (1976), a Sharm una bomba uccise un centinaio di turisti che si abbuffavano di cous cous nel Mercato Vecchio – riguarda qualcosa che non è mai successo.

Me ne stavo su una panca a contemplare gli energumeni fascisti in bronzo dell’atrio centrale. Con quelle spalle solide, quei fianchi scolpiti e quelle cosce a tronco loro non avrebbero mai provato attacchi di panico. Io ero effeminato, quando appoggiavo i piedi sul materasso mi faceva orrore vedere che le punte divergevano, mi sentivo una sciacquetta e in quell’imbuto di ossa veniva convogliata tutta la vergogna di essere me stesso.

“Disturbo?”, si sedette accanto a me una ragazza a cui prima avevo guardato il culo: tondo il giusto. M’era sembrato che sotto i jeans attillati indossasse decolté nere, ora mi resi conto che erano solo ballerine, ma l’eccitazione s’era già innescata.

“Piaci a una mia amica”, indicò una bionda riccia, a forma di beuta, con gli occhi cattivi.

“Quale?”, cercai di guadagnare tempo fingendo di non mettere a fuoco.

“Quella là. – questa qui invece aveva gli occhi azzurri e le lentiggini – Si vergogna. Mi dai il tuo numero, che poi glielo passo?”

Me lo chiese in modo formalmente ineccepibile ma qualcosa, forse l’angolazione delle sopracciglia brune, forse la luce nella sua espressione, che non era quella del sole, ma quella di un neon da scantinato, mi fece pensare alla malizia.

Ci scambiammo i contatti, “Gastone”, “Lorenza”, me ne andai a seguire un corso sulla scolastica medievale e, sul treno di ritorno, cominciai a fantasticare.

Il tradimento di un’amica, il non poter resistere all’eccitazione e venir meno ai buoni sentimenti, alla lealtà, alle convenzioni sociali, solo per ottenere una reazione neurologica di piacere, pensare che lei fosse tutto questo, mi obbligò a correre nel bagno dell’interregionale perché mi sentivo le mutande scoppiare. Era una di quelle perversioni supreme che non implicano l’utilizzo di complessi strumenti di tortura, perché non c’è nulla di più sporco, sordido, piacevole e vergognoso di un'idea. Ero un filosofo.

“A me, in realtà, piaci tu” le scrivo.

“Anche a me mi fai impazzire, chiamami!” risponde immediatamente.

Torno nel bagno un’altra volta, mi slaccio la cintura e la chiamo.

Mi racconta che la sua amica è una buona amica, che l’ha aiutata in parecchi esami, perché lei ha sempre lavorato in birreria ad Asolo, quindi ha avuto meno tempo per studiare, che quando supera un esame va a festeggiare da Mac Donald, che però la sua amica a volte è stata anche stronza, che non l’ha fatta copiare nello scritto di filologia romanza, che le rinfaccia di essere un peso morto, che forse si vendica perché lei è più carina.

“Hai un culetto che mi fa morire” dico io.

“La mattina sono bruttissima”.

“Se questi sono i parametri, chissà la sera” continuo a toccarmi.

Vengo e riaggancio.

Dopo un paio di giorni la rivedo fuori dalla facoltà. “Aspetta”, dice al tizio con cui parla appena mi nota, e mi viene in contro sorridendomi dritto negli occhi.

Due bacini mi sfiorano distrattamente le labbra. Ha le guance bollenti.

“Un altro bacino” dice, e questo è di qualche millimetro più vicino alle mucose. Ho un brivido sulla bocca.

“Finiti i corsi facciamo due passi?” le chiedo.

A ora di pranzo passeggiamo fino al palazzo del Bo, c’è il sole, siamo sudati, lei parla come se fosse tutto normale ma ogni tanto fa uno scarto verso di me e mi sfiora il braccio col seno. Non provo a baciarla come si deve.

“Gliel’ho detto alla mia amica che mi piaci”.

“E lei?”

“Dice che sono una merda.”

“E lo sei. – penso – Ti amo.”

Ci salutiamo.

Nel fine settimana sono al mare con Emma. Dallo sdraio vedo una quarantenne con le tette rifatte, mi assale la voglia di marcio, di malattia, di foie gras, di rimorso.

“Vado al bar a prendere un Calippo” dico a Emma che sta leggendo Topolino.

Dietro le cabine telefono a Lorenza, le dico che ho la ragazza, e lei risponde “problema tuo”. Mi metto dietro a un cespuglio d’alloro, mi tocco.

“Vengo da te domani, dormo lì, così almeno ti vedo di sera.”

“Se mi tiro da strafiga finisce male.”

“Finirà come deve finire”.

Vengo e riaggancio.

Non sarei mai andato. Non l’avrei mai più vista ma tutt’ora, quando sono a corto di idee per masturbarmi, ripenso a quei tre baci sulle guance.