Forse stavo guarendo dagli attacchi di panico. A Venezia non fui nemmeno obbligato a definire un percorso magico per raggiungere i corsi di Ca’ Foscari. I tragitti erano quattro, come le sedi delle lezioni. C’era quella di calle Dorsoduro, una via strettissima che sbucava sul Canal Grande, proprio di fronte a Palazzo Grassi – per un lungo periodo ci fu, nell’acqua fetida davanti al palazzo, un’istallazione fatta a teschio d’acciaio e io la guardavo, facevo le linguacce e poi m’accendevo una sigaretta che, dopo aver valutato mezzo minuto se buttare nel canale o conservare per un cestino, lanciavo in acqua ricavandone un lontano pentimento. C’era quella sulla Giudecca, la più scomoda, duecentoquattordici scalini in su e in giù, contati da me, e contati con segreta felicità, perché ormai la mia principale preoccupazione era la fatica e non la follia. Ce n’erano altre due tra l’Accademia e Rialto. Palazzi e archi che avevano un non so che di stucchevole e turco, umidità e malattia che serpeggiavano nell’aria con l’ineffabilità del riverbero dei canali. Venezia era una creatura anfibia e macera, una rana malata, con arterie straripanti di virus e topi. Per raggiungere i capolavori dentro i quali annoiarmi – sì, la filologia mi annoiava da morire – passeggiavo tra vicoli, viottoli e callette, ascoltavo gli intercalari degli indigeni, “amore” qua e “amore” là, con quella erre lagunare imbastardata con la elle che ti fa venir voglia di ficcare le mani nei palati e torcere lingue finché non imparano a vibrare come Dio comanda.

La Goncharova, lettrice di russo che sapeva a memoria tutto l’Evgenij Onegin di Puškin e percepiva uno stipendio mensile di novecentotredici euro, assicurava che era meglio non conoscere bene le strade, a Venezia, perché il bello, a Venezia, era perdersi. Invece a me, perdermi, a Venezia, mi faceva cagare. Perché col giubbotto avevo caldo e senza avevo freddo, le alte facciate ombreggiavano le vie strette, finché non arrivavi su un canale e allora sole e vento, o pioggia e vento, e la malattia te la sentivi subito accarezzarti la gola. Per di più sapevo di essere immerso in uno dei capolavori assoluti dell’umanità, c’era scritto su tutte le guide turistiche, ma io non ne ricavavo alcun “godimento estetico”, come si dice, giravo la testa in qua e in là, aspettando che arrivasse qualcosa nel mio cervello, ma non arrivava un bel niente, e allora mi sentivo in colpa e dovevo ammettere che non ero mica un poeta. La cosa che capivo meglio della città erano i tramezzini: tonno e uovo, mozzarella e pomodoro, sfilacci di cavallo e formaggio, addirittura aragosta in una paninoteca universitaria vicino alla caserma dei pompieri. Anche se quando li annusavi da vicino conservavano un vago odore dell’alcol etilico col quale è trattato il pane, riuscivano sempre a sedurti, ne mangiavi tre e poi ti stomacavano e ti pentivi – la maionese è l’ipostasi del piacere.