A Venezia, oltre al russo, studiavo l'ebraico antico. Aveva strutture linguistiche affascinanti, come l’ “intensivo”, una specie di superlativo dei verbi. Bastava un suffisso perché “uccidere” diventasse “trucidare”: il testo sacro del Dio dell’Amore pullulava di quel suffisso. E c’era il waw inversivo, un prefisso grazie al quale “Dirà il Signore” (Yomer Elohim) diventava magicamente “Disse il Signore” (Vayomer Elohim). Mentre cercavo di incrociare lo sguardo di una trevisana che portava stivali da cavallerizza e si sedeva sotto la cartina della Galilea, immaginai che fosse per merito di quella disinvoltura nel confondere passato e futuro se un piccolo popolo di pastori era sopravvissuto ai Greci e agli Egizi, all’Impero Romano, al Terzo Reich – l’eternità per loro era grande e manipolabile come un dittongo. La stessa parola “Elohim”, che noi traduciamo come Signore, è in realtà plurale, il che giustifica preventivamente Dio dalla propria manifesta schizofrenia – e santo cielo perché la trevisana doveva mordicchiare la biro in quella maniera. Troppo impegnati a stillare la lista degli alimenti impuri, a stabilire l’angolazione del coltello per sgozzare gli armenti per i sacrifici, a lottare con il loro Dio nella sabbia della Palestina e a mungere le capre, gli ebrei si erano scordati di inventare le vocali. Così una stessa parola poteva essere un nome o un verbo, voler dire una cosa o il suo contrario, ed era solo il contesto a determinarne il significato. Almeno fino all’epoca dei puntatori (VII secolo), che avevano delegato mungitura e zuffe divine a qualche domestico e si erano potuti dedicare a ingentilire con nei d’inchiostro la Torà, tentando di restringerne le possibili interpretazioni. Quando l’estate di quell’anno accesi la tv e vidi le immagini della Battaglia di Gaza, in cui Israele prese il controllo della striscia trucidando suppergiù centosedici persone, ipotizzai che l’impresa, ai puntatori, non dovesse essergli riuscita troppo bene.

Ero quasi arrivato a slinguazzare la trevisana, a produrre quei suoni gutturali così utili a convogliare il catarro oltre l’ugola durante i malanni stagionali e, quindi, a leggere fluentemente la prima riga del meraviglioso Libro di Giobbe quando, dopo una lezione di letteratura russa, la Manfredini, responsabile del dipartimento di slavistica che camminava come un damigiana coi piedini, mi disse: “Sei alla terza laurea triennale. – sembrava sempre sul punto di addormentarsi, ma io ero già pronto a reggerle la fronte con una mano: si fosse spaccata la zucca sullo spigolo della cattedra gli appunti delle sue soporifere lezioni sarebbero diventati inutili – Non puoi studiare russo ed ebraico insieme, finirai a trent’anni di questo passo. – aveva chiuso gli occhi dietro alle lenti fumé, ma anche questa volta resistette, e li riaprì – Iscriviti al biennio di lingua e letteratura russa, ti passiamo tutti gli esami, a parte le tre annualità di lingua e le tre di letteratura, poi, un giorno, se vorrai, riprenderai in mano l’ebraico.” Fui lusingato e ricavai una scusa per diminuire il mio impegno. Mi alzai e mi misi le mani in tasca, ora la sua testa poteva anche fracassarsi, che è l'intensivo di rompersi.