Avevo fatto il commesso a Londra per tutta l’estate. Tornato in Italia, come d’accordo, mi rividi con Bill Doust, direttore commerciale della Piero Alabarda SpA. “Potrei anche assumerti”, mi disse, “ma di moda continui a capirne poco. Ti va di fare esperienza in show room nella prossima campagna vendita?”

Accettai perché quella, evidentemente, era la mia strada, continuavo a raccontare.

La responsabile dello show room Gran Bazar Alabarda (la seconda linea di Piero Alabarda) di via Lepanto a Milano, Bruna – occhiali tondi, sguardo basso e sospiri da nevrotica – mi trattava con un certo ossequio, perché ero stato raccomandato dal direttore commerciale. Mi affidò a una donnina cazzuta di origine siciliana, sui cinquanta, che si chiamava segretamente Antonietta ma che, vergognandosene, si faceva chiamare Tony. “È la nostra venditrice più brava” gridacchiò Bruna nel presentarmela.

Mi sedetti di fianco a Tony, davanti a una grande scrivania sulla quale erano disposti cataloghi, cartelle di vendita e book di sfilate. “Per i negozi di proprietà non c’è molto da faticare, perché è tutto più o meno imposto dall’azienda e si parla direttamente col nostro buyer” mi spiegò Tony. Le avevo chiarito, con belle parole forbite, che stavo prendendo la terza laurea. Così lei, di me, aveva la considerazione acriticamente alta che i soggetti poco istruiti della sua generazione hanno verso i “dottori” della mia generazione.

“Con franchising e multimarca può essere un casino, perché l’obbiettivo è fargli rispettare il budget e questi a volte tirano i remi in barca sul più bello. – indicò un brasiliano che, tamburellando col piede, trattava con la venditrice della scrivania accanto – E soprattutto rifilargli i capi caratterizzanti della collezione, che spesso sono i più difficili, a volte obbrobriosi”.

Ogni tipologia di vestiti era contraddistinta da una lettera. K erano i top, N le ###a href="http://www.marieclaire.it/Moda/tendenze/gonne-a-ruota-primavera-estate#1" id="Gonne" title="Tendenze gonne estate 2017" target="_self">gonne, P i pantaloni. Le lettere erano seguite dal numero del modello. K 31 non era una sonata per clavicembalo, ma un top di acrilico. Si scorreva la lista dei capi-collezione, si andava per ordine. Ogni modello veniva poi mostrato nel catalogo e, possibilmente, sul corpo di una modella. Plausibili variazioni di colori e tessuti venivano proposti al cliente con l’ausilio della cartella di vendita, sui cui rettangolini di velluto o cotone era così bello passare il dito. Arrivavano proprietari di negozi dall’Africa, dall’Australia, dalla Russia, dall’Argentina. In pratica si era commessi di commessi, nettare commerciale, la poliglotta quintessenza del mercato.

Tony possedeva quell'equilibrio tra empatia e determinazione che era, di fatto, l’unica arma che i venditori potessero utilizzare per fare rispettare i budget. Con il giusto angolo di un sorriso – il cucchiaino di zucchero ben calibrato nella tazzina – doveva trasmettere la viscerale certezza che cardigan e maglioni non sarebbero rimasti stipati nei magazzini a nutricare le tarme.

Dai venditori, per cui in genere commerciare per Alabarda costituiva una missione onorifica, io, il raccomandato, che a malapena distinguevo il blu navy dal blu notte, ero visto con invidia e disprezzo. Ci si dava tutti del tu ma, quando si parlava di Alabarda, a nessuno capitava, neanche per errore, neanche in una conversazione a due nella segretezza di un cesso, forse neanche durante un esame di coscienza, di non chiamarlo “Signor Alabarda”. Anzi, era un’unica parola: Signoralabarda. Lo intravidi solo una volta, dopo una sfilata, a braccetto con Kate Blanchett – che stava facendo pisciare suo figlio sull’erba del cortile interno. Ma era lo stilista, il capo, il marchio, il senso, la presenza che aleggiava sulle superfici ortogonali bianche e nere dei divani, sulla piccola pasticceria con la granella di pistacchio del bar dei dipendenti, nei bagni profumati di eucalipto, sull’erba all’inglese del cortile interno e sui camminamenti che la incorniciavano diligentemente.

C’era chi, come la fiammiferiforme Mariuccia, guardarobiera storica – da mezzo secolo trascinava nei camerini delle modelle i carrelli col vestiario con l’inesorabile cocciutaggine bidirezionale di un pendolo – quando parlava di Lui, si commuoveva. “Al Signoralabarda è piaciuta tanto la torta di mele che gli ho preparato per il suo compleanno dell’87.”

Bruna dava per scontato che sapessi alla perfezione l’inglese, essendo io stimato da Bill Doust, così mi presentò Daniele, dell’ufficio merchandising, per un lavoretto supplementare. Ma, scendendo le gerarchie aziendali, il rispetto nei miei confronti cangiava in sospetto.

“Giochi a squash?” mi chiese Daniele.

“No, ma da bambino prendevo lezioni di tennis.”

“Hai gli stessi calli che ho io qui, vedi?”

“A volte vado in palestra.”

“Non si direbbe.”

Mi fece accomodare nel suo ufficio, aveva la nuca bombata come un polpo.

“Dunque, caro il mio bel callosetto, c’è da tradurre questo comunicato qui, in inglese. – mi passò un foglio A4 scritto per intero – Sono le istruzioni su come disporre la merce, andrà distribuito a decine di negozi in giro per il mondo.”

Vampata.

“Ma hai l’intera giornata. – riprese a compilare una tabella di Excel – Take your time.”

Mi isolai sui divani del bar – con le sedute monumentali e silenzio tutt’attorno – e chiamai il mio cugino commercialista, che adesso lavorava per una multinazionale a Ginevra.

Verso sera ebbi la traduzione.

“Molto bene. – io stavo aspettando da cinque minuti con le spalle appoggiate al muro dell’ufficio di Daniele – Chi te l’ha fatto?” chiese alzando lo sguardo dal foglio.

“Ma che dici?”

“Va bene. – inclinò la testa – Facciamo finta.”

Avevo come l’impressione che l’aura di arcana potenza con cui ero stato presentato in azienda si andasse sgretolando di giorno in giorno e, quello che rimaneva lì sotto, era patetico, cioè io.

Durante una pausa Alessandro, un venditore trentaduenne con la coda di cavallo, aveva organizzato un passatempo. Con carta e penna dovevamo stillare la lista dei cinquanta stati americani. Vinse lui, che probabilmente indiceva lo stesso concorso dalla terza elementare, e prese a giochicchiare con la cravatta d’ordinanza che aveva sfilato dal cassetto della sua scrivania.

“Ma tu no te la metti mai?”, fissai il colletto della sua camicia bianca, sbottonata fino alla terza asola.

“Io, fuori di qui, mi vesto gay metropolitan.”

“Cioè?”

Si guardò attorno, costernato.

“È quello stile che un po’ sembri scazzato e un po’ no, presente? – muoveva la mano con ammirevole gioco di polso – Che un po’ sembri gay e un po’ no, ci sei?”

“Oh.”

“Ma tu che ci fai qui?”

“Osservo. – cercai di dare al mio sorriso la trattenuta eloquenza del cospiratore – Imparo. – pentendomi immediatamente, corressi il tiro – E tu che progetti hai?”

“Io vorrei fare il visual.”

Mi limitai ad annuire, ambiguamente.

“Quelli che dispongono i negozi, ci sei? – si muoveva a destra e a sinistra sulla sedia girevole – Che li arredano. – fece una piroetta di 360 gradi – Che li fanno vivere.”

“A me piace scrivere, anche.”

“Fantastico” e prese la strada della toilette.

Io non volevo fare il visual, né lo stilista, né il manager, né il commerciante. E allora perché cazzo ero lì? Perché avevo avuto quella fregola di conoscere il Signoralabarda, di farglielo rizzare, di andare a Londra a far calzare mocassini ai piedi pelosi dei sauditi, di memorizzare le K 31 e le N 14 e le T 23? Per lo stesso motivo per cui ho arrotolato banconote da mille lire da ficcarmi nelle narici e aspirare cocaina, e ho imparato la coniugazione irregolare del verbo idtì in russo, e sudato sangue sulla prefazione della Fenomenologia dello spirito di Hegel, e comprato costose scarpe da jogging con suole in lattice che mi consentissero di combattere l’accumulo di adipe senza peggiorare la mia spondilolistesi, per lo stesso motivo per cui vivo a Milano e lecco il culo ai direttori. Per lo stesso motivo per cui i tacchini danzano e aprono la ruota, e gli arieti si prendono a capocciate e a volte muoiono di fame con le quattro corna incastrate, per cui gli alligatori alzano sopra il pelo dell’acqua il collo inerme, per cui i pesci degli abissi lanciano segnali luminosi nel silente intestino dell’universo. Per la riproduzione. Tradotto nel linguaggio dei maschi umani, per la figa. Di più, per raggiungere un orgasmo sempiterno, per spermare infinitamente, su tutto e tutte e tutti, per ingravidare le cose e per nascere ovunque e per essere tutto in tutto. Un porno-panteismo, un Nirvana per accumulo dell’Io.

Le modelle che si aggiravano per lo showroom, tutte dell’est, ucraine, moldave, russe, rumene, erano sensuali come grondaie. Altissime, magrissime, con piedi lunghi e ossuti, lineamenti duri e inespressivi. “Il Signoralabarda vuole che in sfilata risaltino i vestiti” mi spiegò Tony.

Venivano trattate come manichini semoventi, grossi pezzi di carne post-sovietica da incartare in strati di tessuti sintetici. Di solito camminavano scalze, per cambiarsi più in fretta; in punta di piedi, per riprodurre la postura dei tacchi. Sorridevano verso le scrivanie e, appena si voltavano, il sorriso non c’era più: tu ti ritrovavi a fantasticare su un’apocalisse atomica.

Veronica, una venditrice boccoluta a cui era morto da poco il marito, quando le si presentò Olga, la modella che le era stata assegnata per la mattina – in effetti sembrava un violoncello con una parrucca bionda appoggiata sul riccio – disse al proprio cliente, e lo disse forte e chiaro: “Mannaggia, c’hanno rifilato ancora il mostro.”

Natalia, castana, altezza normale, bel portamento, era l’unica che mi piaceva. Mentre sfilava con un paio di short davanti a una coppia di clienti australiani, Tony si accorse che la fissavo. “Non cazzeggiare con lei” disse.

“Perché?” le chiesi.

“Perché è la ragazza del ragazzo del Signoralabarda.”

“Oh.”

“Hai in mente Salvatore?”

“Sì”. Ce l’avevo in mente perché compariva in varie foto dei book delle sfilate. Non molto alto, spalle larghe, scuro di occhi, di pelle e di capelli, croce al collo.

“Lui è da un po’ di tempo il suo favorito. – sussurrò – E sai come vanno queste cose.”

“Circa.”

“Sai che ha fatto la campagna vendita scorsa, il Signoralabarda?”

“No, non mi sembra.”

“Si presenta qui alle nove di sera, molti di noi stavano finendo con gli ultimi clienti. Dice che non gli tornano alcuni dettagli di un tipo di boxer di tre anni prima, attillatissimi, e fa schierare tutti e sei i modelli presenti, a torso nudo, con solo quelle mutande lì addosso, e se li guarda per dieci minuti, mentre mio figlio mi chiamava perché gli avevo promesso la crostata.”

Quando, dopo i diciassette giorni di lavoro in show room, tornai a Ferrara, avevo una gran voglia di sposare Emma, isolarmi in una grande casa di campagna e coltivare un orto a carote, peri, cocomeri e tulipani, e avere tanti bambini e tanti animali.