La madre di Emma, portinaia, l’aveva avuta a diciotto anni. Suo padre, spazzino, le aveva lasciate e s’era rifatto una famiglia. Sua madre aveva iniziato ad assumere psicofarmaci e a frequentare spacciatori e alcolizzati. Suo padre era stato picchiato a sangue da uno di loro con un mattarello. Un altro aveva sparato contro la porta di casa, perché detestava le falene. C’erano tutte le premesse perché Emma diventasse un’eroinomane entro i sedici anni, invece diventò una segretaria. Anche se si ricordava che il padre, appena era stata in grado di masticare, le faceva divaricare le mandibole – “fai aaaah”, le diceva – per tirarle pezzi di mela giù in gola e testare la resistenza ai conati di sua figlia, le era molto affezionata. In fondo era un buon uomo, non aveva assunto mai nulla, se non la nicotina delle sue MS senza filtro, e aveva un premolare nero, chiamato affettuosamente Il Marcione, che la faceva ridere tanto. La madre era come una sorella scapestrata con cui si litigava la paghetta della nonna. Emma tornava a casa dopo una giornata di lavoro, sua mamma aveva comprato il pollo alla diavola per il gatto, Emma mangiava le gallette di riso polacche che monopolizzavano la dispensa e la malediceva. Cose così.

La amavo con quella tenerezza morbosa con cui ci si china sopra gli Occhi della Madonna appena calpestati – quei fiorellini celesti che si trovano nei sentieri di campagna – e poi si cerca di dare aria ai minuscoli petali schiacciati sollevandoli col mignolo.

Sì, mi dicevo, la tradisco, ma le ho insegnato che cos’è un ornitorinco, le ho fatto mangiare per la prima volta le ostriche, l’ho addirittura portata per mano per le strade di Vienna e abbracciata stretta stretta sussurrandole che l’avrei protetta per sempre quando il vento delle steppe ungheresi le tagliava la faccia, e le ho fatto conoscere mia mamma, che le avrebbe regalato peluche per Natale e trousse di belletti pregiati per il suo compleanno e polli alla diavola personali negli umidi crepuscoli d’autunno.

Sa che mi deve tanto, mi dicevo, in fondo io non sono più egoista di tanti altri, mi dicevo, lei avrà calcolato che il bilancio è positivo, mi dicevo.

Ma capita che quella volontà totalizzante, quel capriccioso e inverosimile anelito infantile ad avere tutto, e ad averlo proprio come lo vogliamo, e subito, si impossessi anche delle creature più riconoscenti.

Quel novembre un attentato terroristico sul treno Mosca-San Pietroburgo fece ventidue morti e cinquantaquattro feriti, in compenso fu scoperta H2O nel sottosuolo lunare. Io, dal canto mio, avevo prenotato una baita a Campiglio dove trascorrere le vacanze di Natale con qualche amico. A Emma non l’avevo ancora detto, sapevo quanto ci tenesse a scambiarci la calzetta della Befana davanti al camino acceso.

Ma mi scordai l’e-mail della prenotazione accanto al computer, in camera mia.

“Potevi anche dirmelo”, stavamo per coricarci, lei aveva il foglio in mano.

“Mi sono dimenticato. – sbadigliai – Te l’avrei detto.”

“Andrete a fare i puttanieri.”

“Ma che ti salta in mente? – la strinsi e le baciai il collo – Ci guardiamo un documentario sugli animali dell’Amazzonia?”

Dopo che l’anaconda inghiottì il coccodrillo – la mia scena preferita – crollai in un sonno profondo. La mattina seguente mi sarei dovuto svegliare prima delle sei, perché a Venezia avevo lezione di patristica ortodossa alle nove.

Sento singhiozzare. Apro gli occhi ed è buio: notte fonda.

“Che c’è, amore?” le chiedo.

Silenzio. E singhiozzii.

“Amore?”

“Sì?”, ha la voce spezzata.

“Mi dici, per cortesia, perché stai piangendo?” E io lo sapevo, lo sapevo bene, anche se non sarei riuscito a dargli un nome.

“Niente.”

“Amore, te lo chiedo per favore, tra poche ore mi devo svegliare. – sospiro rumorosamente – Quindi, per favore, davvero, mi vuoi dire che cavolo hai?”

“Niente. – tira su col naso – Ho freddo.”

“Ma porca puttana d’una troia! – urlo – Allora mi prendi per il culo?”

Mi alzo di scatto e tiro un pugno alla porta del bagno.

“Scusa. – piagnucola – Non volevo.”

Ho un’erezione. Mi guardo allo specchio. “Ho ragione” penso. Mi rinfilo nelle coperte, e non la sfioro neppure, per punirla. Non sento più nulla, forse ha la testa schiacciata sotto al cuscino. Non sarei più riuscito a dormire.

Lei aveva due anni in più di me, quindi ventotto, era mostruoso tenerla vincolata a una storia che non l’avrebbe portata da nessuna parte. “Ma ho paura di farla soffrire” raccontavo. “Se dovesse precipitare un vaso da un davanzale e sfigurarmi – pensavo – chi mi vorrebbe, comunque?”

Ma io c’avevo la Cultura. Scrissi un paio di racconti. Uno, Variazioni sul tema, descriveva come fosse impossibile scegliere tra quel desiderio di eiaculare a destra e a manca e la necessità di aggrapparsi a un corpo di cui si riconosce l’odore quando c’è buio e silenzio e si pensa all’enormità del Nulla e che tutto muore. Un altro, Confessioni di un virus, raccontava il mio più grande terrore: aver contratto l’HIV durante un rapporto non protetto, e averla infettata, e che mi attendessero una lenta agonia e un altrettanto infernale senso di colpa. Non avevo il coraggio di fare un test – la pubblicità per la prevenzione degli anni ’80, con quei due che entrano in un ascensore e uno è contornato da una linea viola e quando escono la linea viola ce l’ha anche l’altra e quel “tu-tu-tu” di sottofondo è stata l’orco della mia generazione. “Ma – ipotizzavo – se fossi davvero malato, sarebbe meglio tenersela stretta, perché l’avrei già infettata e a quel punto non potrebbe che condividere con me gli ultimi giorni, mentre chi altra potrei trovare così folle da votarsi al martirio per me? No – stringevo i pugni – Non voglio morire da solo.”