Emma era andata ad abitare da sola, non sopportava più gli sbalzi d’umore della madre. “Temporaneamente” con una sua amica. L’antifona era chiara. Non mi restava molto tempo, prima che la mia vigliaccheria mi sprofondasse nella paternità.

Il Boss diede una cena a casa sua. Lì, conobbi Silvia. Aveva jeans attillati, belle gambe, smalto blu, si intravedevano i tatuaggi. Sembrava quel genere di donna che preferisce un tizio che sa come tirare una gomitata a testimonianza della propria sovranità sulla pista da ballo di un locale di provincia, a uno che si era letto le prime cento pagine di ###i

Paolo, dopo cena, disegnando cerchi col coltello sulla tovaglia, disse che nel suo negozio di Park Avenue si era accorto di come in America i consumatori siano iper-tutelati, di come la maggior parte dei ricchi locali siano ebrei. E pretendano di sostituire un paio di scarpe dopo due anni di utilizzo, “ci ho ripensato”, dicono, nonostante le abbiano calzate per decine di pranzi di gala e brunch e balli in maschera e i ###a href="http://www.marieclaire.it/Moda/scarpe/zara-tacco" id="tacchi" title="Tacchi alti" target="_self">tacchi siano consumati e le paillette si siano inevitabilmente perse su tappeti rossi e pavimenti termici.

“Piantano dei veri casini” concluse.

“Io sono ebrea” disse Silvia, che fino ad allora se n’era stata in silenzio, seduta tra due amiche.

Paolo arrossì, io mi concentrai su una pagnotta smangiucchiata sul tavolo. Nessuno disse una parola.

“Scherzavo. – Silvia alzò il calice – Cin cin.”

Questa cosa, pensai, Emma non l’avrebbe mai fatta, e anche se fino ad allora la mia ragazza l’avevo stimata proprio perché manteneva con dignità il proprio ruolo di silenziosa subalterna, la sfacciataggine di fronte agli sconosciuti di quest’altra me la fece immaginare piegata a novanta davanti a uno specchio.

Quella sera, quando il Boss ci propinò per la centesima volta il Live at Wembley dei Queen, con Silvia ci provò Giulio. Avendo saputo che dava lezioni di ballo jazz l’aveva fatta alzare dal divano, e s’era messo a dimenare il bacino di fronte a lei. Non avendo ottenuto risultati, nel riaccompagnami a casa commentò: “Mamma mia, che brutta gente”.

Un’altra sera fu invece lei, incontrata in discoteca, ad accompagnarmi a casa. Provai a baciarla.

“Ho il ragazzo” mi allontanò.

“Non mi importa” riprovai.

“No, non stasera”.

“Stai bene con lui?”

“No, ma è lo stesso.”

Intanto, tra un capitolo della tesi e l’altro, tra una chiamata a Doust e l’altra – volevo tenerlo aggiornato riguardo ai mesi che mi separavano dalla laurea e, di conseguenza, dalla mia scalata alla Piero Alabarda SpA – Emma mi scrisse questo messaggio:

“La ami la tua bimba?”

“Insieme ai miei genitori sei la persona a cui ho voluto e voglio più bene sulla faccia della terra”.

La sera lei elemosinò spiegazioni.

“No, non lo so se ti amo. – mi feci forza, come quando senti che hai il conato e finalmente ti decidi a piegarti sul cesso – Prendiamoci un po’ di tempo.”

“Quanto?”, tremava.

“Quindici giorni”, mi sembrò ragionevole, perché unità metriche decimali e pentadattilismo scorrono nelle nostre vene fianco a fianco con l’emoglobina.

Durante quelle duecento dieci ore mi scrissi una ventina di messaggi con Silvia, sul genere di “sentito che freddo oggi?”, “sì, ma il mandorlo è già in fiore”.

Finché una sera in cui ero nello stesso locale dal quale mi aveva riaccompagnato a casa, nonostante non l’avessi vista in giro, me ne scrisse uno più significativo: “Esci a fumare una sigaretta?”

Era davanti all’ingresso. Mi offrì una Diana Azzurra. Fumammo commentando gli abbigliamenti di qualche amico in comune. Lei se ne accese un’altra e, quando ormai mancava un mezzo centimetro di bianco all’arancione del filtro, le chiesi di farmela finire. Lei diede un tiro lungo, intenso, a occhi chiusi, e mentre espirava la nuvola bluastra nella penombra, fece cadere il mozzicone fumante e lo schiacciò col tacco dello stivale.

“Abito qui di fronte. – dissi – Andiamo da me?”

Aspettai che varcasse la soglia, richiusi la porta alle sue spalle, e la baciai. La sollevai, lei raccolse le gambe attorno alla mia schiena e la buttai sul letto.

“E il tuo fidanzato?” le chiesi leccandole le labbra.

“Non lo è più”.

Finito, le dissi che anche io ero fidanzato. Lei non rispose.

Ero sbronzo e mi prese la voglia di essere celebrato. Le lessi, dal computer, un racconto che avevo appena scritto, e che parlava di un tizio ossessionato dagli attacchi di panico, che si convince provengano dall’amore morboso della madre, e che quindi medita di ucciderla in maniere sempre più atroci.

“Sei una bella personcina” commentò.

“Ma che, scherzi?” la spinsi lontano, sul materasso.

“No, dico sul serio. – mi accarezzò i capelli – Si vede che soffri, ma tu hai il coraggio di essere sensibile.”

La sera successiva, quella in cui un terremoto provocò duecentomila vittime ad Haiti, piansi come un vitello nel lasciare Emma. E non recitai.

“Ti vorrò bene per sempre” le dissi.

“Non ha senso – ripeteva – Noi ci amiamo ancora”.

Si aggrappava alla lama con la forza della disperazione dello scotch da pacchi di Gillie.