In effetti, non era la prima volta che cercava di usarmi come cavia, il buon Bisy, per certi esperimenti psicologici, supremo antidoto contro la noia del suo taoismo basso-padano. Fu proprio lui a suggerirmi di lasciare Emma, e a convincermi, durante una lunga chiacchierata notturna dentro la sua macchina – una Porsche Cayenne con l’impianto a metano, lunga e lenta come lui – posteggiata davanti a un distributore spento, coi vetri che si appannavano e Battiato a basso volume. “Vedi, Gastone, questa relazione è perfetta per te. – aveva attaccato – Devi rompere subito. Finché stai con l’Emma non troverai mai l’amore. Hai il controllo su tutto, mentre l’amore è perdita di controllo su tutto. Perché mi guardi con quegli occhioni? – rise – Dio mio, quanto sei figlio di puttana. Hai paura di soffrire? Ti farebbe bene, benissimo. Conosci per caso qualche grande scrittore che non ha sofferto come un cane? – e io avevo già sofferto, per amore e per un sacco di altre cose, ma adesso mi sembrò anche questa una menzogna, che mi faceva sentire speciale quando non ero che un mollusco inumidito dalle lagne – Non scriverai mai nulla di decente finché te ne starai in pantofole ad aspettare i cannelloni della mamma e poi un’amante al campanello e quando sarai venuto addosso a quest’amante te ne andrai a casa della tua ragazza a guardare i Puffi. Quella Silvia di cui mi hai parlato, quella tutta tatuata, per esempio, mi sembra faccia al caso nostro.”

Così, mi ero ritrovato insieme a Silvia, pronto per un amore travolgente, mi dicevo, impossibile da controllare.

Per rendermi chiaro che un giorno avrei diviso il calendario della mia esistenza in un prima e in un dopo Silvia, sostituii il plaid nel quale mi raggomitolavo con Emma, rosso con gli orsacchiotti, con uno blu con i pupazzetti di neve. Per ribadire la maturità sentimentale che avevo conseguito con quel salto nel dopodomani, preferii vedere Silvia, invece che a casa dei miei come accadeva per Emma, nell’appartamento che mio padre aveva tenuto sfitto per me, in via Aria Nuova (ah, l’amore, il destino, la toponomastica). Là ci dedicavamo canzoni su Youtube e bevevamo i resti di liquori che la madre di mio padre, morta dieci anni prima, aveva a suo tempo accumulato nella dispensa. Soprattutto c’erano bottiglie e bottiglie di amaro chinato, una specie di chinotto sgasato a 22 gradi. Era evidentemente da voltastomaco. Altrettanto evidentemente io non potevo sopportare i borbottii di Busta Rhymes, che lei canticchiava con la brace della Gauloises blu che si allungava accanto ai suoi occhi socchiusi. Proprio come era evidente che lei non poteva apprezzare i violini isterici e misticheggianti del mio amato Arvo Pärt.

“È tutto perfetto” ci dicevamo scolata la seconda bottiglia di amaro.

E mentre facevamo l’amore ci dicevamo anche “trxxa”, “stxxnzo”, “caxxo” e “fxxa”. E poi, durante le coccole, che erano molto importanti e intime, dal momento che la stanza era intiepidita solo da una di quelle stufette elettriche che scaldano davvero solo quando s’incendiano, ci dicevamo un sacco di altre cose.

“Sei fantastico”, “e tu stupenda”.

“Che bello baciarti”, “anche solo guardarti”.

“Non immaginavo fossi così”, “io non ci speravo”.

“Mi fai sciogliere”, ”e tu impazzire”, “e tu morire”.

“Chi l’avrebbe mai detto?”, “cosa?”, “lo sai”.

“Ti voglio”, “e io ti penso”, “ e io ti adoro”.

“TU”, “No, NOI”.

Insomma, ce ne volle di tempo prima che uscisse dal bagno e trovasse la sua trousse aperta sul letto, con lo specchio e le matite e i rossetti, da me disposti in modo da formare la scritta “Ti amo” (che poi sarebbe diventato, in sussurri e sms, “ti amo molto”, “moltissimo”, “da impazzire”, “da morire” etc.). In effetti io l’avevo già deciso, che era il momento di innamorarmi, ma una cosa come quella che avevo provato da adolescente, con le farfalle in pancia e il bisogno di scrivere sul diario il nome della tizia di turno, quella cosa non m’era più capitata. Però lei, Silvia, ballava, aveva una buona mano per il disegno, quando le leggevo qualcosa di mio diceva che credeva molto in me, aveva perso un fratello a quattordici anni. Insomma, glielo dovevo dire, prima o poi, che l’amavo.

Nella stanza, oltre alla stufetta, c’era anche una porta a vetri, che separava il mio monolocale dal grande e trasandato appartamento di mio padre, che non ho mai capito, né gli ho mai chiesto, che cazzo lo usasse a fare. Mamma diceva che lo teneva perché era della nonna e lui non voleva venderlo né affittarlo. Io penso piuttosto che lo usasse per la copula, non so bene con che frequenza e con chi.

Questa porta a vetri privava me e la mia nuova ragazza di ogni illusione d’intimità. La domenica mattina, soprattutto, compariva la giunonica sagoma di Tamara, la signora ucraina incaricata di arginare l’entropia dell’appartamento disabitato e che, per ragioni a me del tutto oscure, rimaneva sempre un minuto buono davanti alla mia porta, salutando con ampi gesti nella nostra direzione (al di là della porta c’era subito il letto), nonostante io non mi sia mai sognato di ricambiare.

Così proposi a Silvia di dipingere i vetri con la tempera, di riprodurre un boschetto con gufi occhieggianti e fiori colorati. La maggior parte dei gufi rimasero orbi e i fiori privi di petali, condannati a un autunno perenne, perché, in fondo, valutai nel giro di pochi mesi, vedersi a casa dei miei era più comodo, col ragù di mia madre sui fornelli e una caldaia che pompava acqua bollente negli undici termosifoni della casa.

Una volta dovevo raggiungere Bisy per un aperitivo in centro e, al momento di uscire di casa, lui mi disse che c’erano anche due sue amiche. Le conoscevo e le consideravo due foglie d’insalata ai lati della grigliata mista. Così lo comunicai via sms a Silvia, che quella sera era a Firenze per uno spettacolo, glie lo scrissi mentre camminavo tutto ringalluzzito dalla mia neonata onestà sentimentale per le strade rinascimentali di Ferrara, che mai mi erano parse tanto degne di far parte del patrimonio Unesco. “Sei un coglione – mi telefonò – e le mie amiche sono d’accordo con me.”

“Perché?”

“Non hai un idea di come ci si comporti in un rapporto vero.”

“Imparerò. – chinai il capo – Dammi un po’ di tempo.”