Silvia, la mia nuova ragazza, mi spalleggiava perfino quando litigavo con la relatrice della tesi. La prof diceva che no, Vladimir Solov’ëv non poteva essere un fanatico staliniano. Anche perché, in effetti, il filosofo era morto trent’anni prima che il buon vecchio tiranno georgiano prendesse il potere. Lei appoggiava gli occhiali sulla scrivania, ammetteva di non avere mai letto una riga di Heidègger, lo pronunciava così, e poi sbraitava: “Quindi, accidenti, non so spiegarti il perché. Ma l’idea di fondo è inaccettabile e becera”.

Silvia invece diceva che avevo intuizioni grandiose, che avrei raggiunto tutti i miei obiettivi, nella vita, che ero perfetto, in sintesi, dovevo solo imparare a non portarmi al cesso il cellulare, a non cambiare ogni settimana la password dell’e-mail, a rendicontare caratteristiche fisiche e caratteriali delle ragazze con cui mi capitava di parlare in treno o alle poste. E avremmo continuato a essere felici per sempre.

Poi andammo in vacanza in Sicilia, con altre coppie di amici. Sognavo fin dal liceo una vacanza di questo tipo. Mi ero sempre detto che un uomo non può desiderare nulla di meglio che i propri migliori amici, la donna di cui è innamorato, una bottiglia di bianco ghiacciato e una casa con un terrazzo sul mare. Verso la fine di quelle due settimane cominciai ad avere furibondi attacchi di dermatite seborroica.

C’era Matteo, uno di quelli che nelle carovane di motorini guidava la fila. Ancora oggi, quando sente profumo di sangue, cioè se ti mostri debole, sulla difensiva, ecco che ha trovato un bel modo di passarsi la serata. Era con Laura, la sua ragazza. E Giulio era con Sabrina.

Nella villa rustica che avevamo affittato, a San Vito lo Capo, Silvia e io alloggiavamo in una matrimoniale con una grande finestra che dava su un mulino diroccato. La finestra rimaneva per la maggior parte del tempo sigillata perché Silvia adorava dormire a oltranza e detestava i rumori. I miei amici mi conoscevano come uno che, in ogni vacanza – eccitato da tutte le possibilità di incontri e orgasmi che offrivano strade e locali – più che dormire aspettava a occhi chiusi, supino, con l’indice sulle labbra. Così, quando in Sicilia li raggiunsi in spiaggia alle quattro di pomeriggio per il terzo giorno di fila, Matteo attaccò, alzando il collo dal telo da mare, con la voce gutturale per la postura: “Ehilà, Genzio. – mi affibbiò questo soprannome che non aveva senso ma esprimeva, come un’onomatopea, il nuovo personaggio che interpretavo – Abbiamo fatto un sonnellino, a quanto pare, eh, Genzio?” Sentivo che Silvia mi guardava, giusto a un dosso di sabbia da me.

“Già. – risposi fissando nell’occhio un gabbiano – Non ho più la fregola di alzarmi all’alba per cercare chissà cosa. – il vento mi soffiò in faccia il fumo della Gauloises che Silvia si era già accesa – Sono fortunato.”

“Buon per te, Genzio” disse Matteo.

“Perché, proprio Genzio?” chiesi.

“E come dovrebbe chiamarti, Genzio?” fece Giulio, appena risalito dal mare.

Nello sbottonarmi la camicia, nello stendere il telo a una distanza cordiale ma non intima dai miei amici, eseguii i movimenti rigidi e imbarazzati del bambino che si è cagato sotto.

Finché, una sera, la tragedia. Andammo a Marsala, poco più di settanta chilometri…