Nonostante la dermatite seborroica e tutto il resto, il primo pezzo che mi venne pubblicato, su LocaliUniversali, la rivista della fondazione del grande vecchio della sinistra italiana, Maurizio De Pace, prese proprio spunto da quella vacanza infernale – un inferno dove puoi arrostirci gli spiedini diventa quantomeno un purgatorio. Avevo un amico ingegnere, chiamato Giallo. Nel 2009 lavorava a Roma, in una società di energia fotovoltaica diretta da Alfredo Loy, che dirigeva anche LocaliUniversali e che poi sarebbe diventato ministro della cultura. Giallo me lo presentò per rimediare, come si dice.Ero andato a trovarlo giù a Roma a fine agosto e per tutto il weekend avevamo giocato alla Playstation nel suo appartamento di via Tripoli, nella penombra da tapparelle abbassate, perché fuori il sole spaccava le pietre. Se facevo gol non esultavo, aspettavo qualche secondo poi, quando Giallo aveva ripreso a fissare lo schermo, soffiavo delicatamente nel foro del suo orecchio. Lui sbraitava e bestemmiava e pigliava a calci le lattine di coca ghiacciate e mi minacciava di morte.Giallo era ossessionato dalle calvizie e si massaggiava le tempie con latte di mandorle, per favorirne la microcircolazione, diceva; era affascinato dall’odore delle caccole, “come ascoltare il rumore del timpano”, diceva; aveva dichiarato guerra eterna alla nazione spagnola da quando la sua ragazza, una laureanda in biologia marina, durante un Erasmus a Huelva l’aveva lasciato per un surfista andaluso, dopo aver giurato e spergiurato per quattro mesi di frequentare così assiduamente quel certo Gonzalo giusto perché la sua tesi si sarebbe concentrata sui microorganismi che intaccavano lo smalto delle tavole da surf nei mari temperati; ora Giallo vive con Giulio a Londra, dove guadagna più di seimila sterline al mese per occuparsi di impianti fotovoltaici in Cornovaglia ma passa solitarie serate nei pub, ancora cavalcando l’onda dello spirito di rivalsa nei confronti della traditrice e mettendo a punto rompighiaccio – così li chiama lui – del tipo: “pensa a un numero da uno a dieci”, “fatto”, “sei”, “no, nove”, “questa cosa non la sapevo, ma so che hai bisogno d’amore”.L’ultima partita alla Playstation di quel weekend di agosto, giocata all’una della domenica notte, la vinsi cinque a quattro, ai supplementari, con la Spagna, e commentai: “Perdoname, tio, nonostros no podemos controlar nuestro vigor”. E soffiai verso il profilo di Giallo come dovessi raffreddare il risotto.

Avevo già preso sonno da qualche ora, nel mio letto accanto alla finestra spalancata che dava su un ampio balcone, e fui svegliato da una luce intermittente, dal calore, da un odore strano – dal fumo, avrei capito – e da un certo crepitio.

Desculpame, tio, los italianos tambien quieren el fuego de la pasión” ghignò Red a braccia spalancate, sul balcone, con la faccia rosseggiante per le fiamme e gli occhi lacrimanti per il fumo. Aveva ammonticchiato i miei vestiti dentro il trolley, c’aveva svuotato sopra una bottiglia di alcol etilico e poi gli aveva dato fuoco con un cerino. Gli chiesi, come risarcimento, di combinarmi un pranzo con Loy per il giorno seguente, di prestarmi una camicia azzurra e dei pantaloni decenti, e lui annuì ancora sghignazzante intanto che versavamo caraffe d’acqua tra le mie povere magliette fumanti di nero.

Mentre seguivo Loy per il ghetto ebraico della capitale, il grande erudito si fermava in ogni mercatino di libri antichi e annusava tra le pagine. “Tempo e legno” diceva. Parlava con voce sottile, spesso di De Pace, “Maurizio”, lo chiamava, dava a me del Lei e non sganciava una moneta a nessuno degli africani che ci si avvicinavano con nuovissimi libri dei loro paesi, “questi libri sanno di plastica”, diceva. Mi propose di scrivere un articolo all’interno di un numero speciale incentrato su come gli scrittori italiani vedono “l’italianità”. Raccontai di quando, coi miei amici e le nostre ragazze, eravamo andati nella Riserva dello Zingaro, accanto a San Vito. Appena fuori dal parco naturale c’era una baracca in cui un vecchio vendeva orzate e panini. Arrivammo lì davanti a mezzogiorno – quella mattina Silvia si era svegliata presto per l’emicrania – ma non potemmo comprare neanche un sandwich: il geronto li aveva già finiti.

“Di già?” gli chiesi.

“Venti, ne faccio. Da trent’anni. Non uno di più. – aveva un lunghissimo pelo grigio che gli spuntava da una narice – Ho paura che avanzino.”

“D’accordo, – dissi – ma è agosto e i turisti sono tantissimi.”

“Che vuoi, un’orzata?”

“Due, grazie.”

Una la passai a Silvia e presi a sorseggiare la mia, appiccicato al bancone per godere dell’ombra della tettoia.

“Dev’essere bella, la riserva” feci.

“Dicono così, ma io – alzò le spalle – mai la vidi.”

“Cioè, vende panini qui davanti da trent’anni e non l’ha mai vista? – mi voltai verso Silvia, che si stava mungendo la fronte nella calura – E perché, mi scusi?”

“Perché…fa fatica.”

Ecco, io utilizzai questa cacata per dimostrare, nel pezzo chiamato Thought in Italy, come gli italiani siano intrinsecamente terroni; come la terronaggine abbia le sue ragioni metafisiche, una sorta di saggio fatalismo; di come i popoli mediterranei sappiano d’istinto, da millenni, che nulla vale la pena; di come sia idiota cercare di inoculare l’arrivismo anglosassone nel Mediterraneo.

“Gastone, lei è molto dotato. – disse Loy a telefono – Il pezzo glielo pubblichiamo.”

“Davvero?” chiesi, stingendo la mano di Silvia che era lì di fianco.

“Sì, insieme a quelli dei finalisti dello Strega e di altri scrittori”.

Sapevo che non avrei preso una lira, ma abbracciai Silvia. “Allora è vero che mi porti fortuna”, la baciai.