Ringalluzzito da quella prova del fato – Bisy aveva avuto ragione – domandai a Silvia il permesso di andare a Parigi per un fine settimana perché, dal momento che eravamo destinati a trascorrere insieme una vita lunga e felice, due giorni di lontananza non potevano essere significativi. Ero ormai immune da qualsiasi idea di tradimento.

“Va bene, voglio lasciarti andare. – sospirò – Ma non farmi star male.”

Nei giorni in cui falliva Lehman Brothers, suggellando la crisi economica che avrebbe dato al nostro strutturale fallimento l’indulgente sfumatura della contingenza, partii verso la Francia con Trullo – dopo aver lavorato come rappresentante di prodotti per parrucchieri, il mio amico, finanziato dal padre, un biologo di fama, aveva aperto un bar il cui pezzo forte era l’”aziendale”, un bicchierino di vodka Stolichnaya con un solo cubetto di ghiaccio, da bere tutto d’un fiato. La scusa era l’inaugurazione della nuova boutique Haas (cioè, del nostro amico Paolo) in Faubourg Saint Honoré, dotata di una bottega in cui calzolai con la giacca di velluto a costine nascosta dal grembiule sporco di lucido, confezionavano scarpe su misura fatte con l’epidermide degli animali più pregiati, loro malgrado, del Pianeta Terra.

Fino a sera ero stato attentissimo a non far star male la mia fidanzata, tenendola aggiornata su ogni nostro spostamento, mandandole anche una foto della statua di Giovanna d’Arco dentro Notre Dame perché, le avevo scritto, lei e la santa erano “accomunate dalla stessa eroica passione per la giustizia”. Quando, al cocktail, iniziai a vedere tette premute verso il cielo plumbeo di Parigi dai push up, caviglie slanciate da sandali di Louboutin, labbra potenziate da rossetti Maybelline New York e la voglia di cazzo serpeggiante nei sorrisi dilatati dallo champagne e dall’entusiasmo mondano, abiurai. Paolo aveva assunto la sua espressione istituzionale, con un sopracciglio arcuato e l’altro dritto, Trullo simulava telefonate, imbarazzato dal parterre internazionale e io, dopo un po’, mi annoiai di intercettare vassoi guarniti da tartine con uova di lompo. Iniziai a parlare con due italiane eccitate dall’idea di essere a un evento in Saint Honoré, quindi predisposte a darla a chiunque dimostrasse di essere abituato a un evento in Saint Honoré. Cercavo di strascicare le parole e di tenere le palpebre rilassate. Erano entrambe bionde, una bassa e con le tette grosse, l’altra con le gambe scoperte. Solo allora mi ricordai che era quasi un anno che non provavo la sensazione di una pelle diversa da quella di Silvia contro il mio corpo. Pendevo un po’ verso di loro. Così, tanto per passarmi il tempo, mi dicevo. Mi dicevo: a parlare non faccio nulla di male.

“Belle, vero, le scarpe?” chiesi a una.

“Le Reiner Haas mi fanno impazzire” gridacchiò.

“Vedi, loro usano la stessa moquette beige per tutti i negozi, da Pechino a Toronto” dissi all’altra italiana.

That’s amazing” gridacchiò.

“Paolo, il figlio dello stilista, che è un mio carissimo amico, mi ha raccontato che la cosa più difficile è stata trovare un giovane calzolaio di talento, ma allo stesso tempo senza assurde velleità da stilista. – alzai il calice – Alla nostra” dissi.

“Sei fidanzato?” chiese la tettona.

“Ho un tira e molla in corso” dissi, ripetendomi che era tutto un gioco, solo per vedere se ci sarebbero state.

Ci spostammo in un ristorante accanto a Place de La Concorde, con luci soffuse, tappeti armeni, finiture in ebano e camerieri brizzolati. Coinvolsi Trullo, anche lui fidanzato, nella faccenda. Non c’era scappato neanche un bacio ma, alla seconda bottiglia di Bordeaux, se non l’orgia, quantomeno un coito simmetrico, io con la tettona, lui con le gambe scoperte, era evidentemente maturo, con quelle lì che sempre più spesso ci sfioravano i dorsi delle mani guardando altrove. Mi sarei fermato al momento giusto, questo è chiaro, mi dicevo.

Intanto continuavo a scrivere a Silvia di quanto erano buone le uova di quaglia tartufate, di come il disegno dei tappeti mi ricordasse un arzigogolo che lei aveva dipinto sulla mia, anzi, nostra, porta a vetri, omettendo solo della presenza al tavolo di quelle due tizie – Silvia non avrebbe capito che, per continuare a esserle fedele, avevo bisogno di qualche sfogo, piccole, innocenti burle infantili il cui massimo risultato sarebbe stato una carezza. A forza di scriverle – più mi sentivo in colpa più le scrivevo – consumai la batteria del cellulare, non prima di averle detto che, per qualsiasi urgenza, poteva chiamare Trullo. Dopo mezz’ora telefonò al mio amico, che mi diede di gomito, mostrandomi il numero sullo schermo per accertarsi che fosse della mia fidanzata. Io mi alzai, uscii di corsa e le dissi, tenendomi il cappotto chiuso con l’altra mano, quanto sarebbe stato bello contemplare abbracciato con lei l’obelisco di Place de La Concorde, che lei era più bella e più misteriosa di tutti i misteri di Luxor – città egizia da cui proveniva quel monumento, le dissi che quello stesso monumento mi ricordava un’erezione e che avevo tanta voglia di fotterla. Ci confermammo, abbassando la voce come sempre, chissà perché, che ci amavamo.

Il fratello di Paolo, Jules, propose di andare tutti a concludere la serata in un night di Pigalle, così, per far qualcosa di diverso, e io e Trullo convenimmo che gli spettacoli al palo avrebbero propiziato nelle due ragazze uno spirito di emulazione in grado di vincerne le ultime resistenze – ultime resistenze prima del mio teatrale rifiuto, ovvio.

Salii in un taxi con le due tipe, Trullo in un altro con tre francesi amici di Paolo. Noi eravamo davanti e, quando non vedemmo più l’altra vettura al seguito, chiamai il mio amico col cellulare della tettona, per ripetergli l’indirizzo. Davanti al locale, Trullo mi si avvicinò grattandosi la testa e guardando a destra e a sinistra. Conoscevo quell’atteggiamento.

“Che è successo?”

“Ecco, – si schiarì la voce – ho fatto una cazzata.”

“Quale?”

“Non ero ancora sicuro del nome del night e allora volevo richiamarvi, ma nella lista delle ultime chiamate, sai, sono sbronzo, c’era buio, e, insomma, ho pescato il numero della Silvia invece che quello della tettona.”

“E cosa le hai detto?”

“Ciao tesoro, Gas è ancora con te? Siete arrivati?”

“E lei?”

“Lei ha detto, ‘Trullo, sei tu?’”

“E tu?”

“Io ho riagganciato.”

“Sei un coglione!”

“È stata sfiga.”

“E adesso?”

“Oh merda! – si mise una mano nel cappotto – Sta chiamando.”

Gli presi il cellulare dalle mani.

“Pronto, amore” risposi, allontanandomi dall’ingresso del night.

“Ciao” fece.

“Come va?”

“Spiegami.”

“Cosa?”

Silenzio.

“Ah, dici la chiamata? – presi tempo – Io ero in macchina con Luca, l’amico di Paolo, e la sua ragazza, la Betta, Trullo si è sbagliato e ha chiamato te invece di lei.”

“E la chiama tesoro?”

“Sono amici dalle medie.”

“Fanculo, testa di c…”, riagganciò.

“Amore?” richiamai.

“Tra noi è finita.”

“Ma che stai dicendo?”

“Che o trovi una povera cerebrolesa o passerai la vita da solo, e te lo auguro.”

“Stai scherzando, vero?”

Riagganciò.

La richiamai, non rispose. Ancora e ancora. Ero arrivato sulla Senna, le scrissi che mi sarei buttato di sotto.

Mi chiamò. “Allora dimmi la verità” disse piano, con calma – me l’aveva sempre detto che di fronte alle cose davvero gravi sapeva mantenere un sangue freddo da boia.

“Va bene, va bene. – un po’ piangevo e un po’ mi sforzavo – Trullo ha conosciuto queste due brutte tizie, mi ha chiesto di spalleggiarlo e io, sai come sono fatto, volevo vedere se piacevo ancora.”

“Sei un povero cretino.”

“Lo so. – presi fiato – Però, però, per favore, amore mio, spiegami perché.”

“Guarda, te lo dico in tutta sincerità, non mi interessa neanche sapere se è andata davvero così.”

“È andata così, te lo giuro.”

“Non mi importa, non voglio stare con una persona come te, per me questo equivale già a un tradimento. È finita, addio.”, riagganciò.

La richiamai innumerevoli volte, dopo essere sceso giù dall’argine ed essere arrivato vicinissimo al fiume – oddio, con un semplice salto non ci sarei arrivato, in acqua, ma ero abbastanza vicino da tirarci dentro i sassi senza sforzo.

Alla fine rispose.

“Faremo un incontro a quattro, con la ragazza di Trullo, e vedremo chi dice la verità, va bene?”

“Certo, nessun problema. Ma, ti prego, non lasciarmi.”

“Questo l’ho già fatto.”

Quella sera non mi avrebbe più risposto, ero disperato: avevo sprecato la mia unica ipotesi di felicità, avevo tradito il grande amore della mia vita. Dovevo pensarci prima, ormai era troppo tardi. Mi fiondai dentro al night e, immerso nelle troie, bevetti e fumai fino a vomitare le uova di pesce e di quaglia e le idee di suicidio.

Quando tornai a Ferrara mi precipitai a casa sua. Sdraiata sul letto, era inamovibile.

“Non sono più arrabbiata. – disse – Ho solo capito che non siamo fatti per stare insieme.”

Attaccai con le promesse. Niente più vacanze con gli amici, niente più weekend con gli amici, niente più amiche, niente più un sacco di altre cose. E tanto amore. Stavamo redigendo un contratto orale, la lista dei vincoli ai quali avrei dovuto sottostare andava crescendo a dismisura, ma Silvia ancora non apponeva la sua firma – un bacio, un sorriso.

Il suo gatto, un micione tigrato, scappò sul tetto dalla finestra che avevamo spalancato per far uscire il fumo delle tante sigarette.

“Merda!”, finalmente lei scattò in piedi.

“Lascia fare a me” dissi.

Mi lanciai sulle tegole e lo braccai.

In fondo era quello che stavamo aspettando tutti e due, Silvia e io, una scintilla, un evento casuale che desse a lei una giustificazione per muoversi dalla posizione nella quale si era trincerata con tutto il suo orgoglio.

Mi abbracciò – certo, come il salvatore del suo gatto, non come un fidanzato.

Così le ripetei tutte le cose che avrei e che, soprattutto, non avrei fatto mai più in vita mia, e lei firmò accarezzandomi i capelli.

La mia esistenza autonoma era stata dichiarata decaduta con esplicito consenso di entrambe le parti.