Quando pensi di essere a un bivio importante, quando sei certo di avere lì davanti la svolta più decisiva della tua vita, ecco, quello è un miraggio. Stai pur certo che la tua via si rivelerà il solito vecchio rettilineo. Niente deviazioni, tutto pantano. Sempre dritto, lentamente, nulla cambia. Se giri il volante è solo perché uno di quegli animali notturni dagli occhi scintillanti, una creatura del Caso, ti si butta in mezzo alla carreggiata.

Venne il giorno della laurea di Silvia, poi, a sole due settimane di distanza, la mia – il destino continuava a ribadire che eravamo fatti l’una per l’altro, ci dicevamo. Era la fine di marzo, ma Venezia era sommersa dalla neve, i canali ghiacciati. La mia relatrice, la Pitti, che in fondo non vedeva l’ora di cavarsi dai piedi quello studentello borioso, quando mi vide nell’atrio di Cà Giustinian, con i fiocchi che turbinavano fuori dalle grandi finestre da cui filtrava una luce bluastra, disse: “Con lei solo disastri. Speriamo sia l’ultimo.”

Man mano che scrivevo, la tesi si era trasformata in una specie di apologia del feticismo e finiva così: “Perché forse, come diceva il vecchio Hegel, il Vero è l’Intero, ma la speranza… è nelle mutandine di pizzo.” La Pitti aveva detto, non senza qualche buona ragione, che era una chiusa inaccettabile e becera .

Davanti alla commissione, presieduta da un linguista lituano in sandali e calzettoni di lana, recitai l’introduzione in russo imparata a memoria e poi risposi alle domande in un filosofese che tanto nessuno di loro si sarebbe dato la pena di decriptare. 110. Sempre a un passo dalla gloria, giusto a un passo, anche se indossavo giacca scozzese, gilè tirolese, papillon non preannodato perché l’arte di plasmare un farfallino era ormai appannaggio di pochi elegantissimi eletti – me l’ero fatto annodare da Silvia dopo averla convinta a studiare svariati tutorial su Youtube.

Giulio, che allora viveva a Milano, mi fece una sorpresa e si presentò in aula appena prima che mi proclamassero. Con lui, i miei genitori e Silvia, ci spostammo sui taxi boat per i canali, brindammo all’Harris Bar e al Florian. Mio padre non riusciva a nascondere un certo fastidio per gli alti costi di bottiglie di champagne chimico e tramezzini burrosi perché ha fatto dell’attenzione al rapporto prezzo/qualità uno dei capisaldi della propria condotta etica. Quello che non poteva nascondere mia mamma era una vaga malinconia dei sorrisi, perché – io lo sapevo – non riusciva a concepire come da un successo non dovesse originarsi meccanicamente una gioia: per lei la felicità dovrebbe rispettare una sorta di ciclo dell’acqua.

In effetti il mio sentimento preponderante era, tanto per cambiare, l’angoscia. Silvia era segretamente irritata dalla presenza di Giulio, dai nostri abbracci, dalle feste che gli avevano fatto i miei genitori, dalla percentuale di parole e di sguardi che dedicavo al mio amico in confronto a quella che rivolgevo a lei. Ma non l’avrebbe mai ammesso. Anzi, diceva spesso: “Giulio mi piace molto, penso che alla fine ci somigliamo più io e lui di quanto ci somigliamo io e te. – la qual cosa ingenerava in me un misto di rasserenamento e autoflagellazione, eccitazione e inquietudine – È lui che non sopporta me.” Se ne stette tutto il santo giorno in disparte, negli angoli di barche, ristoranti e calli, ma in maniera ostentata, più come un mendicante che come un portaombrelli. E in auto, quando sulla strada del ritorno, ormai sbronzo, girandomi dal posto del morto verso i sedili posteriori che condivideva con mia mamma, le dissi che l’impero romano era sopravvissuto per secoli solo grazie agli schiavi e qualsiasi società sopravvive solo grazie agli schiavi e anche la nostra sopravvivrebbe solo grazie ai preziosissimi schiavi se non fosse per l’invenzione di nastri trasportatori e lavastoviglie, lei rispose enigmaticamente: “Non sono per niente d’accordo. Su tutto. Ma oggi festeggiamo.”

E così facemmo tutta la sera, finché in un circolo Arci di Ferrara non presi a baciare sconosciuti sulla bocca e un energumeno mi attaccò al muro caricando il destro e io dovetti ricorrere a tutto il mio talento narrativo per salvarmi il setto nasale chiedendogli in maniera verosimilmente sconvolta: “Minsi, cosa ti prende?”

Questa faccia da beota teneva il pugno tremante sopra la testa. “Cosa?” sputacchiava.

“Dico, dopo tutto quello che c’è stato, Minsi, sei impazzito?”

“Che cazzo vuoi, coglione?”

“Non sei Roberto Minseppi, di San Pietro in Casale?”

“Cazzo dici?”

“Dio mio, che figura, siete due gocce d’acqua.”

Abbassò il braccio cercando – senza successo – di capire se fossi pazzo. “Non so neanche perché non ti spacco la faccia”.

La mattina mi svegliai all’alba – in pratica non dormii – perché all’una avevo appuntamento con Bill, da Origami, il ristornate di Alabarda a Milano: se dio vuole era il momento di farmi assumere in Alabarda SpA. Non c’è tempo da perdere, le rughe e la saggezza arriveranno come una gelata.

“Vedi, Gastone, – Bill intinse un boccone di sushi nella vaschetta della soia – non penso che rimarrò qui ancora per molto.”

“Nessuno di noi rimarrà qui per molto, a parte Henry Kissinger”, sentivo le tempie che mi pulsavano, ma avevo quella spavalderia ingentilita del giorno dopo che sta alla sbronza come la carta da lettera sta alla corteccia di pioppo.

“Qui in azienda, dicevo” specificò senza dar peso alla battuta.

“Davvero?” per la prima volta in quella mattina realizzai che avevo lo stomaco corroso dall’alcol.

“Questa poteva essere la Chanel italiana, noi abbiamo una Ferrari sotto il sedere. Ma il Signoralabarda pretende che la facciamo viaggiare sulla sabbia, sui sassi, sull’acqua.”

Diedi un sorso alla birra. Parlammo di Proust, della crisi, di sua sorella che, dopo una lunga malattia, era morta, a Londra, di quella casa con la carta da parati a Mayfair che ora era tutta da ristrutturare, anche se con tanta tristezza, della crema di piselli britannica. E, mentre una corvetta sudcoreana veniva affondata da un siluro nordcoreano, gli chiesi: “E quindi, io?”

“La tua dote è l’insistenza.”

“Dici sul serio?”

“Potrei provare a inserirti nella struttura commerciale, anche se per ora le assunzioni sono bloccate, per la crisi. Ma io in tutti i casi non ci sarò più. Non so se ti conviene.”

Seguirono mesi di disoccupazione, idillio con Silvia e racconti: quelli che battevo sul pc e quelli che snocciolavo ad amici e conoscenti: la mia vita era una pacchia, ero innamorato perso e stavo valutando se davvero l’Ipotesi della Moda – ormai era diventata una definizione di fisica quantistica – facesse proprio al caso mio.