Qualcosa aveva preso a scricchiolare nel rapporto con Silvia. O meglio, se aveva sempre scricchiolato, ora prese proprio a franare. Quindi feci la cosa che sapevo fare meglio: scappare.

Una mattina, sfogliando il giornale, appresi che la commissione Ecofin aveva creato un fondo di 500 miliardi di euro per evitare che la crisi economica della Grecia si estendesse ad altri paesi. Che bravi, dissi sbadigliando, proprio bravi, sfogliai e sfogliai. Poi l’occhio mi capitò su un trafiletto che recensiva il libro di un’autrice esordiente. Chi scriveva l’articolo parlava abbastanza bene del romanzo, seppure il testo collezionasse “qualche eccessiva levigatezza in stile Scuola Oliver Twist”. Non sapevo che cosa fosse, questa Scuola Oliver Twist. Google mi disse che era un master biennale di “scrittura e story-telling”, che si trovava a Torino, che il direttore era niente meno che il grande romanziere Stefano Rispoli – del quale avevo sempre invidiato il naso greco, spesso inquadrato in tv, perché il mio forma una gobba, più evidente nel profilo sinistro. Il nome della scuola riprendeva quello del romanzo di Charles Dickens: la storia di un orfano vittima dell’ingiustizia dell’Inghilterra ottocentesca. Era stato scelto per evidenziare la sfrontatezza infantile di ogni scrittore, ma soprattutto la fatica che comporta la narrazione, il lavoro duro e sporco che l’accompagna, l’avventura e la costante possibilità della miseria e del fallimento. In sintesi l’artigianalità, come piaceva ripetere a Stefano Rispoli.

“Provare non ti costa nulla. – disse Silvia – Poi, vedremo.”

Bisognava inviare una lettera motivazionale, prima di presentarsi a Torino per la selezione. La lettera la rivolsi direttamente a Oliver, chiedendogli se tra tutta quella miseria di furti con destrezza, di camini e orfanotrofi, non avesse mai trovato il tempo per una sega. Gli chiedevo di raccontarmela giusta, perché in fondo io non ci credevo che non si toccasse: a dieci anni per me era già un tripudio di smanettamenti. Era sempre troppo stanco, Oliver? A me non la dava a bere: quella era la sua unica consolazione, così come era stata la mia, anche se non avevo dovuto fare l’assistente becchino e arrampicarmi su per i muri per aprire la porta ai ladri miei padroni, e lo era ancora, la mia unica e autentica consolazione, solo che adesso eiaculavo.

La prima impressione di Torino fu ottima, credo anche per Silvia. Era giugno, i colli dietro la Gran Madre erano verdi, i palazzi avevano l’aspetto goloso e opulento dei gianduiotti carta oro, nel parco del Valentino, lungo il Po, c’erano gli scoiattoli. La scuola si trovava a poche centinaia di metri dal fiume – che è più vicino alla sorgente rispetto a quando passa per Ferrara e quindi ha avuto meno occasioni di accumulare merda – al primo piano di una palazzina settecentesca, in corso Manzoni.

Arrivai di buon ora, mano nella mano con Silvia. Per la prova d’ammissione si era formata una grande fila, che partiva dall’ingresso della scuola, scendeva giù per due rampe di scale e si gonfiava anarchicamente sul marciapiede davanti all’edificio.

Cominciammo ad avanzare, lenti – gli esaminandi, una volta su, dovevano dare il nominativo e poi essere smistati nelle varie aule. Arrivati alle scale Silvia non poté più accompagnarmi perché la salita era riservata ai candidati: ammucchiati tre a tre su ogni scalino, parlottavano in preda all’agitazione e pestavano i piedi. I Birkenstock, che segretamente odiavo proprio perché li calzava Silvia, la facevano da padroni. E anche un altro tipo di calzature di cui non ho mai saputo il nome, scarpe appositamente sformate, di colore scuro, sempre allacciate nello stesso modo: dall’occhiello più vicino al quinto dito emergeva un nodo grande, sproporzionato, la cui funzione non mi si chiarì mai del tutto. Erano le scarpe d’ordinanza, scoprii, per la divisa da intellettuale in erba. Io indossavo una maglietta giallo canarino, con piede deforme e scritta “Alluce valgo”.

“Dovrei avercela io, quella lì”, una bergamasca sovrappeso stava indicando la mia maglietta. Aveva un piede ingessato.

“Forse ti sarebbe stretta.”

“Come, scusa?”

“No, no. – arrossii – Non hai capito, intendevo per un’altra cosa. Insomma, ecco, per il seno, dicevo.”

Lei mi guardò ancor più cupa: “Come, scusa?”

“Niente, mi sono confuso”, mi girai e scrissi un messaggio a Silvia dicendole che la amavo, per scaricare l’imbarazzo con i pollici.

“È la terza volta che ci provo – disse un tipo tutto in nero, con coda di cavallo e grossi scarponi da metallaro – Quella scorsa, c’hanno fatto ascoltare una sinfonia di Bach. Vi rendete conto, Bach? – molte facce gli si avvicinarono, concentratissime – Poi dovevi scrivere un dialogo creando un personaggio diverso per ogni strumento.”

“E tu come te la sei giocata?” chiese qualcuno.

“Chi se lo ricorda. Sai quando fai ogni cosa strafatto d’adrenalina? Ricordo solo che il violoncello era un serial killer che mangiava l’intestino delle vittime con la senape.”

“Genio!” disse un tipetto col piercing al naso – avrei scoperto che l’espressione “genio” era abusata quasi quanto “volevo solo raccontare una storia”, nell’ambiente.

Altri ostentarono facce di superiorità – altrettanto inflazionate di “genio”, nell’ambiente.

La prima prova – segreta, come le tre che sarebbero seguite, fino alla consegna dell’esercizio – consisteva in un racconto libero sul tema “Amore”, guarda un po’. Un quarto d’ora di tempo. Io iniziai scrivendo offese rivolte alla mia vicina, che non poteva mica sentirmi e aveva irritantissimi capelli unti: “pepata di cozze allo stato filamentoso” – la boutade dovette infastidire la commissione, dal momento che presi l’insufficienza. Poi, pian piano, iniziai a parlare di Silvia. Scrissi di come c’eravamo svegliati quella mattina, di come lei, brindando coi cappuccini, mi avesse detto in bocca al lupo fissando la bustina dello zucchero di canna. Di come io le avessi assicurato, cercando disperatamente di costruire un aereo di carta con quella bustina troppo rigida, che anche se fossi riuscito a passare il test, c’avrei pensato un bel po’, prima di trasferirmi in Piemonte. Di come, appena la caffeina aveva raggiunto il mio cervello infondendomi un po’ di sicurezza, avessi pensato che sarei stato disposto a sacrificare anche l’amore, pur di raggiungere la gloria. Di come l’avessi baciata, Silvia. Di come avessi notato per la prima volta che la carnagione del suo viso fosse giallognola.

Durante la pausa pranzo comprammo dei panini al supermercato e ci sedemmo sull’erba del Valentino. Molti dei miei contendenti erano lì attorno. Chi sul prato a mangiare grossi rettangoli di focaccia, chi sulle panchine a rollare sigarette con le cartine corte, chi a passeggiare per i vialetti fumando quelle stesse sigarette – uno scrittore, scoprii, manifesta il proprio talento artigianale anche nel tabagismo. Ci scrutavamo dalla distanza l’un l’altro, cercando di cogliere i segnali – il modo di gesticolare, il tono della voce, la scollatura della canottiera, il modello di cellulare – che identificassero questo come un perdente, quest’altro come un pericolo.

“Lo passi. – disse Silvia dopo aver fatto una panoramica col suo collo scomponibile – Fidati di me.”

“Saremo centocinquanta e i posti disponibili sono trentacinque. La vedo molto dura.”

“Ma hai visto gli atteggiamenti, le espressioni?” Ognuno di noi due era scaramantico a proprio modo.

Quando, dopo un paio di settimane, uscirono le graduatorie, io ero al trentaseiesimo posto.

“E se qualcuno si ritira?”, Silvia mi accarezzò come qualcosa di suo.

“Slitto in avanti”.

Sapevo che se gliel’avessi chiesto sarebbe venuta a Torino con me. Mi dicevo che, rispetto a Milano, dove l’anno prima le avevo proposto di trasferirsi se Doust mi avesse dato le chiavi di Alabarda SpA, molte cose erano diverse: la città non la conoscevo per nulla, quello della scrittura era un percorso con destinazione del tutto incerta, a Torino non avrei lavorato, e anche per lei sarebbe stato più complesso trovarsi un’occupazione, seppur non avesse mancato di contrabbandare tra vari discorsi, in quei mesi, l’informazione che nella capitale piemontese c’erano accademie di danza jazz di prim’ordine.

Mio padre mi propose, per l’ultima volta, di iniziare a lavorare nel suo studio tecnico peritale.

“Se vuoi che mi suicidi inizio domani.”

Qualcuno si ritirò, scalai al numero trentadue. Mi iscrissi alla Scuola Oliver Twist, previo permesso di Silvia. A fine settembre mi sarei trasferito a Torino. “La distanza non potrà farci che bene” le dissi. “Vedersi sarà una gioia, non un’abitudine” le dissi. “Ci renderemo conto di quanto ci manchiamo”.