Iniziai ad andare su e giù da Torino con i miei genitori, in cerca di una casa. La maggior parte degli appartamenti erano mansardati. Le mansarde torinesi sono spioventi come bottiglie. Minacciavano bernoccoli e inverni rigidi, lunghi e carichi di precipitazioni.

Durante i viaggi in macchina (quattro ore a tratta), mentre svisceravamo i problemi della casa, del mio destino di grande scrittore (l’ottimismo leibniziano di mamma e papà non era stato intaccato nella sua essenza dai tempi della mia infanzia, nonostante Tangentopoli e l’Undici Settembre e la Grande Crisi e tutto il resto), del mio fidanzamento o ex-fidanzamento, io feci una scoperta: mi si incarnivano con buona frequenza i peli del petto e comprimendo la carne con gli indici dove intravedevo un punticino nero, ne fuoriusciva un aborto di pelo che si arricciava a scatto su se stesso come una serpe impaurita. Arrivati a ottobre, nei giorni in cui la Germania finiva di pagare i debiti imposti dal trattato di Versailles del 1919, avevo il petto tumefatto.

Trovammo una casa in via Santa Teresa 10, vicino a piazza San Carlo, al primo piano di un palazzo progettato da Filippo Juvara, maestro di un barocco marziale e misurato, che aveva dato al centro storico di Torino la sua personalità – anche se affacciandosi nella maggior parte dei cortili notavi muri scrostati e ringhiere sommerse da panni stesi, e intuivi che la gloriosa epopea della Fiat aveva reso la capitale sabauda un po’ più simile a Gela.

L’appartamento aveva due grandi stanze – un soggiorno e una camera da letto – un cucinotto e un piccolo bagno. Si sentivano i tonfi dei bidoni dell’immondizia e l’odore di involtini primavera, perché le cucine del ristorante cinese di via XX Settembre davano sul cortile interno su cui si affacciava anche il mio balcone, al di là di una grande vetrata. Questa vetrata, in soggiorno, sul momento la adorai per tutta la luce che lasciva entrare. Ma alle prime gelate, quando mi resi conto che le antiche tubature del palazzo più che diffondere calore nei termosifoni glielo scoreggiavano dentro a fasi alterne, iniziai a odiarle profondamente.

Per tentare di sentirmi a casa misi Big John, una bambola gonfiabile maschile con baffi da texano che avevo comprato a Parigi, a cavalcioni di un fenicottero rosa in gesso con cui la proprietaria di casa aveva ravvivato il salotto (il collo del povero uccello si sarebbe rotto mentre tiravo pugni nel vuoto per un appunto del Maestro Cucciniello a un mio racconto).

Quella che ormai era di fatto la mia ex ragazza, cioè Silvia, nonostante le mie insistenze, non ci accompagnò mai nelle perlustrazioni, né nel trasloco.

Dopo innumerevoli messaggi, contrattazioni, chiamate, caffè, quando le consegnai con gli occhi lucidi una coccinella peluche sotto casa, perché il destino, questa volta, aveva utilizzato quel simbolo di buon auspicio per coronare la rinascita del nostro sentimento immortale – anche se io sapevo, e col capitolo precedente lo sapete pure voi, che il modello in esoscheletro di quel simbolo si stava putrefacendo tra la ghiaia di un sentiero di campagna – accettò di rinnovare il contratto. Le clausole si erano inevitabilmente infittite.

Le telefonate non potevano essere meno di due al giorno. Silvia non aveva dettato le tempistiche in maniera esplicita, ma io avevo sviluppato un’ermeneutica canina per mugugni e sussurri, giornalate sul culo e croccantini.

La prima chiamata aveva da svolgersi nella pausa pranzo. L’ansia per le tempistiche delle telefonate fece peggiorare parecchio la mia digestione e là dove fino a qualche mese prima mi sarei spinto fino ai peperoni di Carmagnola con bagna càuda, ora non osavo oltrepassare l’insalatina di cardo gobbo di Nizza Monferrato...