Panta, ormai da una settimana, inviava alla mia ex ragazza serenate dall’altra parte dell’Atlantico – la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata Can’t help falling in love nella versione degli UB40 – quando mi decisi, pochi giorni prima di tornare a Torino, di suonare senza preavviso al campanello di Silvia.

Erano le dieci del mattino, lei stava dormendo. Scese, dopo otto minuti, in ciabatte e pigiama di spugna.

Le promisi tutto, tutto quello che un tempo lei aveva elemosinato e che sapevo anche ora non avrei potuto mantenere, le dissi che ero geloso ma la mia gelosia si manifestava in modi perversi, sai, per l’orgoglio, le dissi. Le feci capire che era stata una poco di buono a comportarsi in quel modo, insinuai che così non la pensavo solo io, ma un sacco d’altra gente. Lei si incazzò e allora le chiesi scusa e se era innamorata e lei rispose di no, ma nemmeno di me, rispose, io le dissi che invece lo ero di lei, tanto, da morire, come non mai, per sempre. Lei mi chiese come l’avrei messa con Torino e io le spergiurai che avrei voluto vivere con lei e che non me ne fregava niente di tornare in quella città di merda a imparare i trucchi su come strutturare thriller politici e pubblicità per i biscotti, lei rispose che però, a pensarci bene, era troppo tardi, che magari un giorno, chissà quando, avrebbe ripreso ad amarmi, chissà, ripeteva, ma ora no, diceva, anche perché finalmente poteva frequentare quei locali che a me non piacevano, vestirsi scazzata, ora poteva per la prima volta in vita sua vivere da single, disse – era sempre passata da un fidanzamento a un altro, sveltita da un horror vacui sentimentale.

Eravamo distesi sul prato dell’ippodromo, io bocconi che guardavo lei, lei supina che guardava le fronde di un pioppo. Quando finii di sproloquiare e Silvia si mise seduta e io non sapevo più cosa aggiungere, mi concentrai sulla vaga peluria che aveva attorno alla bocca, che mi aveva sempre irritato ma che adesso chissà perché mi faceva affluire sangue nei genitali.

“Davvero. – sussurrava con voce insolitamente calda – Non voglio prenderti in giro, ho voglia di divertirmi.”

Io iniziai a ondulare il bacino come sulla cattedra in formica delle Orsoline, come non facevo da quindici anni.

“Uscire quando mi va, – continuava – non dover rendere conto a nessuno, ballare con chi capita. – si alzò in piedi e le gambe, in effetti, erano proprio belle e no, non sarebbero state mie mai più – Sì, insomma, divertirmi.”

Venni. Ci alzammo. Io stavo messo di traverso perché sentivo caldo nell’inguine – quel caldo lì – e avevo i bermuda di tela.

“So che cambierai idea” la salutai con voce più calma e lenta.

“Non credo, ma tu pensa quel che ti pare.”

“Proverai almeno a rifletterci qualche giorno?”

“Cosa vuoi che ti dica, va bene.”

“Quanti?” Adesso mi ritrovavo io dalla parte di Emma.

“Ma come faccio a dirtelo? – sbuffò – Diciamo due settimane.”

A casa, mi accorsi che subito dopo aveva risposto con un commento ammiccante al solito video condiviso sulla sua bacheca Facebook da Panta.

“Lascia stare, non pensarci neanche due settimane, avevi ragione tu” le scrissi dopo aver tirato un pugno al muro che mi lussò l’anulare.

Mi richiamò subito e mi chiese cos’era successo. Io le risposi che o era scema, perché non si rendeva conto che dopo tutto quello che le avevo detto e pianto addosso, che lei continuasse pubblicamente a spompinare quello là mi faceva soffrire come un cane, oppure era sadica. In entrambi i casi poteva andarsene al diavolo. Lei mi disse che ero pazzo, che le dispiaceva ma che non sapeva che accidenti dirmi, che no, non mi aveva richiamato subito perché stava già pensando di tornare con me, ma perché il mio istantaneo ripensamento l’aveva incuriosita.

Partii per Torino con le gambe che mi tremavano per i mesi di solitudine che avevo davanti.