Sono passati vent’anni dalla messa in onda di Sex and the City e, nel 2018, le accuse che vengono mosse allo show restano validissime e fertili. Passiamole al setaccio, dunque, e togliamoci il dente. Innanzitutto si sostiene che chiamare lo show «alfiere del femminismo in tv» sia una boiata pazzesca: macchina da soldi e ascolti con pochi o nessun precedente - se si tiene in conto genere e target di riferimento – la serie tv è stata concepita da un uomo a partire dal romanzo di Candace Bushnell, Darren Star e scritta soprattutto da un altro uomo, Michael Patrick King. Le donne sono tutte ricche e bianche. Gli omosessuali (tra cui Star stesso si annovera) sono ritratti in maniera quasi vergognosa, incarnando come fanno una serie di stereotipi odiosi. L’enfasi sull’«empowerment» è talmente legata a frivolezze quali scarpe e vestiti che più che parlare di potere alle donne si parla di potere al portafoglio grazie al grande dispiego di «pinkwashing», ossia utilizzo dell’emancipazione femminile a fini commerciali. Temi quali la malattia mentale sono rappresentati in modo a dir poco puerile, se non offensivo. E non scivoliamo nemmeno nel territorio dei film sequel: uno mostra la donna forte protagonista scendere a patti con un matrimonio di cui non ha deciso assolutamente nulla (ha solo subìto in ogni modo possibile); l'altro… be’, lasciamo stare. Meglio così. E ora un bel respiro.

Le donne sono tutte ricche e bianche

Sex and the City, con tutte le sue imperfezioni, è stato comunque rivoluzionario. Ha messo al centro della storia non un gruppo di amici di cui la maggior parte erano uomini, non una famiglia biologica, non un femminicidio e una cittadina sotto processo ma quattro donne diverse che, a ben vedere, fanno una donna sola. Una ama il sesso e le folle, l’altra è una misantropa con un rapporto complesso con il suo corpo; una è una principessa di Park Avenue che vive di illusioni reazionarie, l’altra è una giornalista piuttosto celebre in un tempo in cui avere una rubrica su un giornale faceva di sé, in qualche modo, una stella. Samantha, Miranda, Charlotte e Carrie sono infatti talmente «compartimentate» nelle loro preferenze e qualità da essere irreali; sono quattro costrutti, quattro archetipi istantanei, quattro concetti e quattro approcci legati alla probabile vita di una donna nei tardi Novanta e primi Duemila prima di essere dei veri e propri personaggi. Guardare Sex and the City tenendo tutto questo a mente è illuminante: se non si cerca veridicità o idealismo, se non ci cercano persone dietro le azioni delle protagoniste ma un lungo discorso sulla femminilità, lo show assume un altro profilo.

lo show ideato da un uomo, ha offerto opportunità straordinarie a registe e sceneggiatrici

Proprio la dimensione della parola è fondamentale in Sex and the City dove si è parlato di vibratori. Si è parlato di età. Si è parlato di autostima. Si è parlato di carriera. Si è parlato di maternità negata, difficile, declinata in diverse accezioni. Si è parlato di desiderio, e di soluzioni possibili a molti problemi. E qui torniamo a bomba sulle nostre obiezioni iniziali: sarà anche vero che lo show è ideato da un uomo, ma già negli anni Novanta il set ha offerto opportunità straordinarie a registe e sceneggiatrici. È sufficiente dare un’occhiata alla pagina Wikipedia della serie: in una società – quella del 2018 – in cui parliamo ancora della scarsità di donne impiegate in lavori creativi nello spettacolo la macchina Sex and the City ha utilizzato la visione di Jenny Bicks, Pam Thomas, Martha Coolidge, Cindy Chupak e numerose altre per farsi strada nell’immaginario delle donne fruitrici della lungimirante Hbo. Certo, avere un gran numero di femmine dietro la macchina da presa e nella stanza degli sceneggiatori appare il minimo sindacale per uno show del genere, ma in quale momento – anche di questi tempi – non marciamo sul «minimo sindacale»?

L’amicizia che è più forte del sesso o del matrimonio

Se passi avanti per la rappresentazione, e molti, sono stati fatti è merito anche di Sex and the City e dei suoi numerosi epigoni. Grazie alla serie la solidarietà tra donne; l’amicizia che è più forte del sesso o del matrimonio; la paura di invecchiare sconfitta dalla sicurezza nell’abbraccio dell’altra sono diventati merce di pregio per i network internazionali. Si può alzare il sopracciglio di fronte all' «uso» del mondo femminile come si alza il sopracciglio davanti a tutto ciò che le logiche dell’entertainment ingurgitano, ma pur riflettendo sull’eredità scomoda dello show – la devastazione del proprio stipendio come solo veicolo di affermazione identitaria, gli omosessuali-cliché o le artiste lesbochic al posto di uomini e donne omosessuali perfettamente normali, l’ossessione di Carrie per un uomo tossico e prepotente come Big – non si può a fare a meno di sottolinearne la portata sovversiva, travestita sempre da vera e propria carezza o schiaffo sulla guancia della spettatrice cui puntava. Per sei stagioni la serie è stata anche un momento di consolazione per le e gli appassionati, uno specchio utile per riflessioni negate su fenomeni scomodi quali l’impotenza maschile, la squalifica di una possibilmente desiderata solitudine, la vera indecisione circa la propria direzione umana e professionale, la rabbia nei confronti di un sistema che poneva (e pone) sulle donne la data di scadenza come fossero yogurt.

Alla domanda: «Cosa ha lasciato Sex and the City?», dunque, siamo in grado di rispondere. La serie di Darren Star ha portato conforto, ha spalancato le porte a una discussione ben più articolata e ha disposto per i posteri un prodotto straordinario, cui probabilmente vanno perdonate le ingenuità tipiche di un altro momento storico e societario. Ha lasciato la rappresentazione di quattro donne, come si diceva, che ne fanno una sola sfaccettata, sbagliata e talvolta masochista. La stessa che sarebbe stata infinitamente (ma mai abbastanza) indagata negli anni a venire.