Oggi il senato della repubblica ha approvato la decadenza di Silvio Berlusconi da parlamentare e io sono qui, a presentare il mio primo libro, Come piselli, al Birocc. Tra pochi minuti dovrò raccontare l’ennesima mezzora di frottole. Mirko Piombina, l'editore, è di fianco a me, ripassa i post it che ha appiccicato alle pagine per abbozzare un'introduzione. Capisco che ha mangiato pesante perché ha l’alito da salame e la testa gli si abbassa lentamente verso il tavolo, finché non la rialza di scatto, come quando ci si addormenta in treno. Il Birocc sta sottoterra, in quello che prima che le vene di Milano venissero cauterizzate era un attracco del Naviglio, poi fu una macelleria, poi una gastronomia, e alla fine osteria rinomata, dove bisogna prenotare con due mesi d’anticipo e dire grazie lo stesso e riproverò certamente.

Cerco qualcosa. Sposto gli occhi – rapidamente, perché ho preso un caffè anche se è sera – sulle otto file di sedie disposte nella lunga sala col bancone in noce su un lato, ma la cosa che cerco non è posata su nessuna di loro; li fermo sulle colonne in muratura alle quali un tempo venivano legate le cime delle barche, ma non vedo spuntare quelle ali maculate; li alzo verso il soffitto a volta intriso di un’umidità che si seccherà solo quando raderanno al suolo questo posto e ricicleranno i calcinacci per costruire un’autostrada, ma non ne vedo volteggiare verso terra le piume, le sue orme guizzanti. Il falco che avevo visto quella volta in montagna, con Pier Vittorio, finalmente l’ho acchiappato, ne sono certo, almeno adesso che ho appena buttato giù il secondo Campari, eppure non lo vedo.

Sento solletico sul dorso della mano. Ed eccola qui, invece: lei, sporca di merda, bellissima. La mosca. Cercavo solo il volatile sbagliato – non è tempo di falchi, se lo è mai stato.

È vero, non fa che spargere pezzi di sé ovunque, e non i migliori: saliva, vomito, feci, sperma, fino a duecento uova al giorno; ma ha antenne che rilevano il vento prima di ogni altro animale; giroscopi, dalle parti del collo peloso, che sbattono a duecento hertz e le consentono di cambiare direzione all’improvviso, quando balugina una mano o una tela di ragno; a differenza della maggior parte degli insetti può partire direttamente in volo rettilineo, quel tipo di volo che lo guardi e dici che sì, di sicuro può arrivare oltre i quasar e i buchi neri e i pulsar e il Big Bang, invece si posa sulla prima merda, perché le mosche non volano mai per più di pochi secondi – e non è forse la merda l’incarnazione più fedele dei ricordi, i gioielli della vita? “Ha ali tanto più sottili e delicate delle altre, quanto una veste indiana è più sottile e morbida d’una greca” diceva Luciano di Samosata , avendo eletto la mosca suo animale totem dopo esser stato cacciato dal laboratorio di scultura dello zio per aver distrutto una lastra di marmo da sgrossare; può percepire i sapori con le ali, perché non si accontenta di una proboscidina retrattile e il mondo è tanto vasto, le merde così varie per colore, profumo, sapore e principi nutritivi, che ha voglia di divorare la vita a smanacciate grandi il doppio del proprio corpo. E se la scacci lei ritorna. E ancora, e ancora, e ancora, e ancora. Dio mio, quanto bene voglio adesso a questa mosca. Giuro su Dio che non arrotolerò un giornale mai più.

Inclino la mano ed eccola che parte, direzione Sirio. Si posa su un auricolare di un vecchio-da-presentazione in prima fila (ascolterà Bach?): per i sensori tra gli occhi composti della mosca i suoni dei violini sono scirocco, che porterà piogge calde e altre mosche con cui danzare sopra le pozzanghere e con cui fare l’amore e depositare uova nei tronchi in decomposizione.

Vola verso l’Orsa Maggiore, un metro più in là, sopra gli occhi di mio padre, occhi così attenti e corrucciati per la mia presentazione che sembra stia per udire il giorno della propria morte. Scuote la testa e lei parte per intercettare nel Perielio la cometa Encke, il naso lungo e sformato di papà, quel naso che dice di essersi fratturato da ragazzino, quando boxava per sfogare un’inquietudine che non sa da dove diavolo veniva e che, adesso ne vado fiero, non morirà con lui.

Vola tra i cerchi di Saturno, i capelli di mia mamma, che è stata dal parrucchiere per l’occasione – da quando ruppe con papà ci va tre volte all’anno: se conoscessi il numero delle messe in piega che la separano dalla tomba correrei ad abbracciarla proprio ora, ma lei si gratta la nuca, e la mosca si sposta su Orione, sul polso della signora ingioiellata con cui mia mamma sta parlando: serenamente, ottusamente, come un’indovina sciroccata continuasse a predirle, ogni santa sera, un futuro di felicità eterna per me – e c’è in questa sala qualche scienziato che possa dimostrarmi matematicamente, indubitabilmente, che non ha ragione?

Forse passerà attraverso un buco nero e si scrollerà il nulla di dosso con un colpo di ali, arriverà nell’intestino delle galassie ai confini del cosmo, quelle di cui si dice che siano morte da miliardi di anni anche se ne ammiriamo ancora l’eco luminosa – la luce delle stelle lontane non è che merda ultragalattica. Ma ora è lì che si pulisce il muso con una zampetta, sul bracciolo di legno della sedia di Pier Vittorio che sghignazza coi miei amici d’infanzia: Matteo, Giulio, Bisy, Danilo. Non l’avrei detto si sarebbero trovati bene: se fossimo una grande comune di gay vivremmo da dio, ora mi sembra così chiaro, arricciandoci l’un l’altro i peli del petto con lo sguardo al soffitto, perché le invidie e i rancori sono il nascondino e il rubabandiera dei grandi, tutti su un enorme materasso ad acqua, fino all’andropausa e oltre.

Un paio di saltelli da poche centinaia di anni luce sulla spalla incamiciata di Guglielmo, poi altri, appena un sistema solare più a destra, sul ginocchio nudo di Rita, che mi ha aiutato con gli inviti. Io saluto tutti alzando il braccio col sorriso di quando ti fanno il solletico: due Campari mi consentono di modulare a piacimento le espressioni del viso.

E la mosca va, attratta dalla gravità delle supernove più rosse, va sul banchetto che ho fatto allestire in fondo alla sala per tentare di vendere qualche copia. Ho voglia di urlare che in qualche modo ce l’ho fatta, finalmente, ancora, e che sono tutti un branco di stronzi e che li amo per questo.

Ma, nel corso degli anni, ho calcolato che l’effetto stimolante del caffè dura tra le due ore e mezza e le tre. Che l’effetto del primo Campari, paradisiaco, dura non più di un’ora e un quarto. Che quello del secondo, anche se meno gradevole, può prolungare il tutto di un'altra ora, ora e dieci al massimo. Bzzz.

CAPITOLI PRECEDENTI:

49. Relazioni disastrose: viaggio nella psicopatia femminile

48: La rivendicazione della propria unicità come ultimo rifugio dei falliti. Ovvero My way di Sinatra

47: La bellezza di piangere: l'autocommiserazione come masturbazione pura

46: Per la depressione dopo una storia finita mi sono ridotto a limonare una statua in via Saffi

45: Lettera d'addio per lei: l'ultima spiaggia degli sconfitti

44:Tu che dici: non sono geloso. Balle! La vita prima o poi ti farà ricredere

43: Come lasciare qualcuno ovvero quando la persona che amavi diventa il tuo peggior nemico

42: Chi è nato negli anni '80 come può credere davvero che qualcosa migliori?