Tra lavoro, passioni, cura di sé ed imprevisti oggi il tempo è diventato un vero e proprio lusso. Come fare per riprenderselo ed imparare a sfruttarlo al meglio? Scopri tutti gli articoli dedicati al tema cliccando qui.

Ce lo siamo ripromessi mille volte: “Per le prossime due ore non darò nemmeno un’occhiata a Instagram. Anzi, non controllerò proprio lo smartphone”. Arriviamo a portarlo in un’altra stanza e ad abbandonarlo lì, con la modalità silenziosa, nella speranza che almeno la distanza fisica ci impedisca di accendere il display in continuazione per poi perderci in uno scroll compulsivo e stolido.

Ma neanche le misure più drastiche hanno successo. La tentazione di controllare se qualcuno ci ha scritto su Whatsapp o menzionato su Facebook è troppo forte: e se mi stessi perdendo qualcosa di importante? Se mi fosse arrivata un’email urgente di lavoro? Mi avrà poi risposto quel tizio su Messenger? Ogni scusa è buona: tempo dieci minuti e ci ritroveremo, senza nemmeno accorgercene, con lo smartphone di nuovo in mano.

L’utente medio controlla lo smartphone 150 volte al giorno, una ogni nove minuti

La cosa più inquietante è che “dieci minuti” non è un numero casuale o esagerato. A dire la verità, è perfino ottimistico. Secondo Adam Alter, autore di Irresistibile: come dire no alla schiavitù della tecnologia, l’utente medio controlla lo smartphone 150 volte al giorno, una ogni nove minuti. I cosiddetti super-utenti arrivano fino a 300.

Com’è possibile che questi dispositivi esercitino un tale potere su di noi, al punto che è impossibile evitare di estrarre lo smartphone anche durante una cena romantica o una serata con gli amici (recentemente una persona che conosco si è messa a guardare il telefono durante un funerale)? La risposta è semplice: hanno questo potere perché sono stati progettati esattamente con questo scopo.

L’ex designer di Google Tristan Harris, oggi attivista del Center for Humane Technology, ha spiegato il funzionamento di questo meccanismo sfruttando il concetto psicologico delle “ricompense variabili intermittenti”. Il modo più semplice di capire di che cosa si sta parlando è immaginare una slot machine: quando tirate la leva, che rappresenta l’azione intermittente, potreste ottenere una ricompensa oppure no (quindi, una ricompensa variabile). La motivazione a tirare la leva deriva dall’attesa di scoprire se otterremo una ricompensa e dalla sensazione positiva che genera la sua conquista.

In effetti, spiega sempre Tristan Harris, molte di queste app sono progettate proprio come le slot machine. Per aggiornare la mail sullo smartphone, dobbiamo spesso “tirare” verso il basso, dopodiché la rotellina dell’aggiornamento inizia a girare e dopo qualche secondo una nuova mail compare: hai vinto! E se non abbiamo ottenuto il premio questa volta, saremo maggiormente motivati a controllare a breve, nella speranza di ottenere la nostra ricompensa variabile intermittente.

La dipendenza da smartphone è causata dagli stessi meccanismi che provocano la ludopatia

In poche parole, la dipendenza da smartphone è causata dagli stessi meccanismi che provocano la ludopatia. Che a loro volta fanno leva sul ruolo che la dopamina gioca nelle nostre vite. La dopamina, il neurotrasmettitore alla base (tra le altre cose) della motivazione, è stata sviluppata dal cervello quando ancora eravamo cacciatori, per spronarci alla caccia e facilitare così il sostentamento. Conquistare un obiettivo scatena infatti il rilascio di dopamina, facendoci avvertire una breve sensazione piacevole che rappresenta, dal punto di vista neurologico, la vera ricompensa per aver portato a termine il nostro compito. Ma in epoca contemporanea, la dopamina non è più legata al sostentamento: sono le gratificazioni dei social network a garantirci un costante apporto di piccole scariche di dopamina, che ci costringono a controllare lo smartphone ancora e ancora, nella speranza di riceverne di nuove.

Ricevere un like su Facebook genera dopamina. Scoprire di avere un nuovo follower su Instagram genera dopamina. Anche soltanto controllare la mail e accorgersi di aver ricevuto una comunicazione genera dopamina. E così, saremo spronati a prendere in mano lo smartphone in continuazione: una notifica scatena il rilascio della dopamina, l’assenza di una notifica ci spronerà a controllare di nuovo nella speranza di ricevere la nostra ricompensa.

Da questo punto di vista, una delle innovazioni più riuscite è il tasto “mi piace” su Facebook, diventato nella sua semplicità, come spiega sempre Adam Alter, “una fonte inesauribile di feedback sociali”. Dopo aver pubblicato qualcosa su Facebook, è difficile resistere alla tentazione di controllare in continuazione lo smartphone per vedere se c’è qualche nuovo like o commento. Quando l’agognato like appare, riceviamo la nostra scarica di soddisfazione; così breve da creare dipendenza.

Ma la dopamina non è l’unico meccanismo in gioco: anche le spunte blu di Whatsapp – che ci avvisano se un messaggio è stato letto – sono state concepite per sfruttare il concetto psicologico di “reciprocità sociale”. In poche parole, sapere che chi ci ha inviato il messaggio può vedere che l’abbiamo letto ci spinge a rispondere immediatamente, anche se in quel momento stiamo facendo altro o se non c’è alcuna urgenza. Allo stesso modo, i pallini che si muovono su Facebook – mostrandoci in tempo reale quando qualcuno sta commentando un nostro post o rispondendo a un messaggio – ci spingono a non lasciare la piattaforma, in attesa che quella risposta si materializzi.

Spostandosi dall’universo dei social network e degli smartphone, la questione non cambia. Tutte le piattaforme digitali sono studiate a un solo scopo: tenerci incollati a esse. YouTube diventa così un vortice dal quale è impossibile uscire a causa dell’autoplay, che continua a propinarci video selezionati in base ai nostri gusti, che partono uno dopo l’altro trasformandoci in zombie che quando finalmente riescono a riemergere dalla spirale si domandano che cosa diavolo sia successo.

Gli algoritmi più evoluti dei più grandi colossi tech sono puntati dritti ai nostri occhi

Anche in questo caso, non dovremmo prendercela troppo con noi stessi. Lo ha spiegato sempre Tristan Harris: gli algoritmi più evoluti, progettati dai migliori ingegneri dei più grandi colossi tecnologici sono puntati dritti ai nostri occhi. Pensare che basti un po’ di buona volontà per evitare tutto ciò significa sovrastimare il nostro potere. Da questo punto di vista, una delle frasi più emblematiche che siano state pronunciate è attribuita a Reed Hastings, fondatore di Netflix: “Il nostro unico nemico è il sonno”.

C’è un modo di resistere a tutto ciò? In tanti provano a cancellarsi da Instagram, a togliere l’autoplay da YouTube, addirittura a lasciare lo smartphone in una cassaforte a tempo quando hanno bisogno di qualche ora di concentrazione. Ma tutti i metodi che si basano sulla nostra forza di volontà hanno poche possibilità di successo. Un po’ più utili si dimostrano invece quelli basati sul funzionamento del nostro cervello. Per esempio, impostare lo schermo dello smartphone in bianco e nero.

Perché dovrebbe funzionare? La ragione è molto semplice: come tutti gli animali, anche gli esseri umani vengono attratti dalle cose più colorate e brillanti; una constatazione dimostrata anche attraverso studi scientifici. “Nessuno acquista una scatola di cereali in bianco e nero, vengono comprate quelle più colorate e stimolanti”, ha spiegato Mack McKelvey, CEO della società di marketing SalientMG, al New York Times. “Anche le applicazioni vengono sviluppate con le forme e i colori più attraenti, tutto progettato allo scopo di catturare la nostra attenzione”. Nel mio caso, in effetti, impostare lo schermo in bianco e nero ha ridotto il tempo che passo con l’iPhone in mano di circa il 15/20%. Non male.

Ma non basta. Per superare la dipendenza da smartphone è necessario in primo luogo che si diffonda la consapevolezza di questo problema e di quale ne sia la causa. Soprattutto, sono gli stessi colossi digitali che devono intervenire per risolverlo: non basta fornire agli utenti applicazioni come Screen Time, che ci fanno controllare il tempo trascorso sullo smartphone e impostare qualche limite (che possiamo tranquillamente aggirare). Sono loro che devono attivamente cambiare il modo in cui progettano dispositivi e piattaforme, smettendola una volta per tutte di hackerare la nostra mente.

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