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Senso di appartenenza e legame sentimentale vanno di pari passo in ogni storia, che l’oggetto d’amore sia una persona o la città che si abita.

Negli ultimi mesi abbiamo visto crescere a ritmi velocissimi un senso di appartenenza a Milano; l’ultima testimonianza su Instagram è l’hashtag #milanononsiferma (oltre 26 mila post in poco più di due settimane). Poi abbiamo guardato il video delle persone che sabato 7 marzo si sono precipitate nella stazione di Milano Porta Garibaldi per prendere l’ultimo Intercity in partenza (che ultimo non è, visto che i treni continuano a partire regolarmente da e per Milano), e ci è sembrato un controsenso.

Quel video racconta di una responsabilità che è sempre di qualcun altro, ma ci dice anche qualcosa sulla concezione di casa nel senso più ancestrale del termine, quella a cui si appartiene, in cui si abita e in cui ci si rifugia. Che per casa si intenda un edificio o una città.

A Milano abitano oltre 1 milione e 400 mila persone, a cui si sommano oltre 100 mila studenti fuorisede e lavoratori in trasferta, ma quel treno-esodo in partenza alle 23.20 riflette un’immagine diversa.

Il primo pensiero è quello di una Milano sedotta e abbandonata, di abitare funzionale contro abitare sentimentale, quella differenza che in inglese si spiega molto bene nella differenza tra house, un luogo da abitare, e home, l’ambiente familiare, un luogo affettivo più che fisico.

Il centro dell’abitare funzionale è nella città, quella di cui tutti siamo orgogliosi di fare parte, il “modello Milano”, bandiera sotto cui si raggruppano le eccellenze della città: lo sviluppo economico, l’industria, la moda, il design, ma anche l’integrazione sociale, i servizi…

Un sondaggio di agosto 2018 di Eumetra MR raccontava di un “forte senso di appartenenza alla città da parte dei suoi abitanti: l’85% dei milanesi non sceglierebbe un’altra città in cui vivere. Questa quota aumenta fino al 90% tra i più giovani, in particolare tra i 18-24enni (95%) e tra i 25-34enni (91%)”.

Proviamo a capire cosa è successo: abbiamo sostenuto il modello Milano senza crederci davvero? Oppure nell’affrontare l’emergenza abbiamo trovato nuovi significati all’idea di abitare? O, ancora, i pendolari a lungo raggio hanno solo messo in pratica in maniera molto più didascalica quello che Rem Koolhaas sta teorizzando nella sua mostra in scena al Guggheneim Countryside the future con cui punta i riflettori sul 98 percento del pianeta non ancora occupato dalle città?

“Ad un certo punto, le Nazioni Unite hanno dichiarato che metà del genere umano ora vive nelle città, da quando c'è stata una valanga di libri e biennali che parlavano solo di città” dice l’architetto. “Di conseguenza, c'è un enorme deficit nella comprensione di ciò che sta accadendo nelle campagne, che è dove stanno avvenendo i cambiamenti veramente radicali.”

Ci siamo concentrati troppo sulle grandi metropoli senza immaginare la loro relazione con i piccoli centri che costituiscono il tessuto sociale italiano?

Quella che è stata evidentemente messa in discussione su quel treno è l’idea di casa, che non è la città in cui passiamo l’80 percento della nostra vita, non è il contesto in cui lavoriamo e frequentiamo nuovi amici, non è il monolocale in affitto né la casa che condividiamo con i compagni di corso.

Nel momento dell’emergenza casa è quella dell’abitare sentimentale, la casa dei genitori, il rifugio per eccellenza, quello spazio che contiene in sé il significato di sicurezza, il riparo ancestrale in cui all’inizio dell’evoluzione umana i nostri antenati si rifugiavano dalle bestie feroci e oggi ci protegge dal Coronavirus. Che sia una villa con giardino o un appartamento con due camere in cui tornare a dormire nel letto singolo insieme ai fratelli. Casa, nel momento dell’emergenza, è ancora lo stare insieme. Ed è proprio questo l’aspetto più difficile da affrontare delle restrizioni imposte da governo per limitare la diffusione del Covid-19: la regola non è “torna a casa” intesa come home, ma “stai in casa” intesa come house. Quello che ci stanno chiedendo è di smettere di pensare alla casa come il luogo dello stare insieme per cominciare a intenderla come spazio dell’isolamento.

“Abbiamo bisogno di una casa in senso psicologico tanto quanto ne abbiamo bisogno in termini fisici: per compensare una vulnerabilità” scriveva Alain de Botton qualche tempo fa in un articolo sull’Independent dedicato proprio all’idea di casa. “Abbiamo bisogno di un rifugio per sostenere i nostri stati d'animo, perché gran parte del mondo si oppone alle nostre alleanze. Abbiamo bisogno delle nostre stanze per allinearci alle versioni desiderabili di noi stessi e per mantenere vivi i nostri lati importanti ed evanescenti”.

In una società che non ha più rituali di passaggio all’età adulta, il segno della maturità forse è proprio nel passaggio da ospite di una casa in affitto temporaneo a “padroni di casa” che fanno propri gli spazi, dal salotto alla piazza del quartiere. Che esprimono sé se stessi e scrivono la propria storia legandola a quella del contesto in cui vivono. Che danno accoglienza piuttosto che riceverla.

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