Una mattinata d’estate dentro un cinema di Roma. Non si proietta nulla ma è come se lo schermo fosse acceso. Potrebbe essere una versione for dummies di Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace, a meno di mettere in imbarazzo i genitori quando poi andranno veramente al cinema. In sala ci sono almeno trenta bambini disseminati tra le file. Non sanno nulla di cosa succederà, poi arriva l’ordine da parte di Gabriele Mainetti, regista di Lo chiamavano Jeeg Robot e dell’atteso Freaks Out: «Dovete scavalcare le poltrone e venire fino a qui». Parte subito il coro incredulo dei bambini: «Davvero?». Si buttano sopra le poltrone, si inerpicano, saltano giù per raggiungere fila dopo fila lo schermo dove un immaginario Peter Pan li sta chiamando a sé per catapultarli in un’altra dimensione. Una scena provata e riprovata almeno dieci volte, per la gioia indistruttibile dei bambini.

«Sono la parte piú incontaminata di noi. Nei miei film c’è sempre quel momento in cui i bambini o in generale i più giovani devono trovare il modo di fare il salto. Il cinema nella sua essenza è anche questo, voler entrare nelle storie, tuffarsi nello schermo, da spettatori completamente rapiti». Mentre controlla i display e scatta le foto gli chiedo della sua prima volta al cinema, lui che poi un giorno si è laureato in storia e critica del cinema con una tesi sull’evoluzione degli zombie dopo l’11 settembre: «Il primo film che ho visto alla loro età è ET di Spielberg, o almeno mi piace pensare così. Ai miei compagni di scuola faceva paura quella creatura, a me no. Più tardi mi sarei appassionato allo show di Zio Tibia su Italia Uno, ai film di Dario Argento, ai classici come Venerdì 13. Non avevo paura di niente».

Dopo il lockdown è tornato in sala a vedere un film? «Volevo vedere la versione restaurata di Old Boy di Park Chan-Wook, ero contentissimo ma non ci sono riuscito. Anche Freaks Out è pensato per la sala, con i tempi del cinema dove da spettatore hai bisogno di molto più tempo e respiri. Per questo abbiamo mantenuto i nervi saldi e respinto il corteggiamento delle piattaforme». Con un gioco di etichette Mainetti definisce Freaks Out un «family separation super-hero movie».

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Giovanni Poggi

L’uscita del film ha avuto una lunga gestazione, con il primo trailer a ottobre 2020 fino all’uscita data per imminente, poi lo slittamento al 2021 con la presentazione a Venezia - sua rivincita personale, visto che l’esordio folgorante non era stato selezionato mentre aveva sbancato la festa di Roma - e poi il 28 ottobre nelle sale. Cosa è cambiato nel frattempo? «Che a furia di rivederlo è stato limato, ho rivalutato e considerato tutto. A volte si è arrivati stanchi in una parte perché in quella precedente si è prolissi, quindi ho tagliato 18 minuti di film, e ora è più veloce. Sono le 1.800 inquadrature processate, con il VFX supervisor Stefano Leoni abbiamo fatto un lavoro molto pignolo per due mesi, paradossalmente molto rapido. È un film totalmente corale, che vuole seguire bene i personaggi, ha bisogno delle sue due ore e venti. Sergio Leone diceva che non ci sono film che durano troppo, ci sono film lenti e film belli. Da spettatore non diresti mai che l’adrenalinico The Wolf of Wall Street dura 3 ore».

Che cosa è significato lavorare nel 2020 ai tempi del Covid? «Per Freaks Out ho lavorato a distanza in postproduzione, ma ho lavorato sul set per molti spot ed ero contento di esserci fisicamente. Stare sul set, creare la scena è tutto. Ci sono stati impedimenti, protocolli e distanziamenti ma è stato fattibile. Il regista è un artigiano, sarebbe bello che saltasse da un film all’altro, e non dicesse "aspetta devo trovare il mio film". Mi piacerebbe avere una continuità lavorativa però è difficile mettere in piedi i film che faccio. Per fortuna tutto ciò che ho scritto l’ho fatto, non c’è un progetto rimasto nel cassetto, e se c’era qualche appunto laterale è finito triturato dentro Freaks Out».

Acciuffare Gabriele Mainetti mentre tutto il giorno fa la spola tra i display e i bambini in azione significa che non sai mai ogni volta chi ti risponde: lo spettatore, il cultore della materia, l’attore, il regista, l’ideatore, il fotografo, il compositore di musiche? Naturale carisma per via dell’altezza, lo sguardo pulito, nulla di più lontano da un Tim Burton o dall’idolo Leone, Mainetti è un perfezionista galantuomo, maniacale senza pesare sulla crew. Carattere che ha un risvolto: «Tutto ciò che viene girato si vede, non si rinuncia a nulla, tutto deve avvenire in macchina».

A riguardare il trailer di Freaks Out viene in mente Fabri Fibra, è “tanta roba”, inclusa l’ambizione internazionale. I freaks sono i fenomeni da baraccone che popolano un circo strampalato che ha piantato le tende nella Roma bombardata del 1943 e occupata dai nazisti. Il padre putativo dei freaks è un ebreo del ghetto romano. Una storia picaresca in cui entrano però anche gli anni della guerra.

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Giovanni Poggi

Siamo oltre la favola di borgata di Jeeg, anche come sforzo produttivo. «Il film reinventa un po' il passato: faccio passare i personaggi dentro dei momenti chiave senza essere stati davvero presenti, sono figure che vengono dalla nostra penna, non mi sentivo di fare un’opera filologica. Non conoscendo direttamente quel periodo posso solo sentirlo, ci assorda ancora la testa ma non ci siamo nati. Conosco lo sfondo perché mia nonna lombarda mi ha sempre raccontato dei bombardamenti e dei treni attaccati. Rispetto ad altri film italiani sul genere ho scelto uno sguardo diverso. Nella mia testa i quattro personaggi sono dei grandi eroi, ma sono anche dotati di meschinità, paure, egoismi, che il nostro cinema conosce bene. La vita poi li cambierà. Ho preso i freaks che sono unici nella loro forma, magici e un po’ fuori dal mondo, per contrapporli ai nazisti che invece erano a favore della distruzione dell’identità personale. Di solito i nazisti vengono descritti come un corpo unico che deve essere annientato ma il villain di Freaks Out non l’ho mai giudicato».

Circa 1.400 persone sono state vestite nel corso di Freaks Out. Come si gestisce tutto questo? «È la possibilità offerta dal mestiere: hai a disposizione gli attori, i costumi, la scenografia e così via. Il film è sempre un viaggio onirico meraviglioso dove il veicolo emotivo è il protagonista. Tutto il mondo deve concorrere a questo percorso del protagonista, gli elementi sono una trasfigurazione dell’anima dei tanti protagonisti. Nel period, i film storici in costume, devi avere sotto controllo anche il fattore temporale. In Jeeg Robot non sono riuscito a cambiare le macchine di un parcheggio, i condizionatori per strada se potessi li leverei. La maniacalità del controllo però deve essere funzionale alla scena, altrimenti è ingestibile, anche per la complessità delle storie. Per questo esiste anche una soluzione radicalmente opposta, come la magnifica scelta di Garrone per il villaggio Coppola di Dogman al posto della Magliana».

Mentre lasciamo Roma per una location dell’hinterland, un maneggio con un ruscello dove è stato ricostruito una specie di varco temporale grazie al quale i bambini passano dalla sala alla magia del cinema, gli chiedo se il suo sguardo su Roma dopo Basette e Jeeg si esaurirà con questo film. Lo sguardo sul fondale capitolino di Mainetti e lo sceneggiatore Nicola Guaglianone ha rotto la cappa della Grande Bellezza, narrazione in voga, la città vista come un contenitore sublime ma stanco, vuoto di umanità, e ha mostrato nei personaggi un po’ di muscoli e un po’ di orgoglio. A dispetto anche dell’altra narrazione di moda, il disagio dei pezzi di periferia che non hanno più voglia di essere Roma, Jeeg usa la città senza patirla e non si vergogna di usarla tutta: la storia del superman sovrappeso nasce in borgata e finisce in cima al Colosseo, risorto e pronto ad abbracciare tutta la città.

Con Freaks Out si chiude la finestra su Roma? «No, è impossibile, Roma è un modo di pensare, uno spazio di cinema importantissimo non la posso abbandonare, così come faccio fatica a non pensare all’italia. Jeeg Robot era una storia di formazione: fantastica, fantasmagorica ma completamente ancorata alla realtà. Ci sono film su Roma che nonostante l’apparenza non cercano l'abbraccio, è l'ottica borghese della distanza Non amo mortificare la città, sono abituato a un altro modo di vivere. Vale per me la morale inclusiva del finale di Poveri ma belli».

Sono passati sei anni dall’esordio folgorante di Jeeg, la posta in palio sembra raddoppiata con le classiche aspettative per la seconda opera. Come si mantiene l’alchimia vincente di una propria cifra stilistica? «Il regista deve avere a che fare con le tante persone che firmano il film, è il capitano della barca ma senza la produzione (Goon Films e Lucky Red con Rai Cinema, ndr) il film non arriva a destinazione. C’è sicuramente una maniacalità nella scelta dei miei collaboratori, perché poi so per esempio che senza i bozzetti scenografici di Max Sturiale, che ha disegnato anche la grotta di oggi per i bambini, non saremmo arrivati al film, idem per il lavoro di Mary Montalto, costumista anche di Jeeg. E poi mi fa stare più tranquillo, non puoi avere la responsabilità su ogni cosa. Il mito di Kubrick direttore di fotografia dei suoi film forse vale solo per Il bacio dell’assassino».

Ha trasformato Mastandrea in Lupin, preso Santamaria e lo ha ingrassato «per toglierlo dalla figura di bello magro dei film di Muccino, serviva una scala diversa e che tutto andasse più lento», ha lanciato Marinelli come villain, «mi interessa fargli sperimentare ruoli che non hanno mai fatto, dandogli più profondità», arruolandolo prima del Caligari di Non essere cattivo.

E ora? Mainetti risponde con i piedi a mollo come la troupe e i bambini. Alcuni devono restare fermi in posa, altri devono muoversi. Tutti però devono tenere l’espressione di stupore, smanaiano dopo prove su prove, anche la sorpresa costa fatica e pazienza. «Come protagonista di Freaks Out ho scelto una quindicenne, Aurora Giovinazzo. Sono andato contro la moda dei personaggi femminili che menano come scagnozzi di Tony Montana. Volevo raccontare un dolore e un potere più profondo. Nei freaks l’unicità è fisica, serviva però una figura che facilitasse l’immedesimazione, un personaggio che fa da veicolo emotivo, che ha il suo freak interno e che infatti confessa di essere il mostro peggiore di tutti».

Si chiama “Hearst Movie Confidence - Del cinema ti puoi fidare” ed è un grande progetto editoriale promosso da gruppo Hearst. Un percorso di sensibilizzazione che coinvolge tutti gli attori interessati alla tutela della produzione, distribuzione e fruizione del cinema e dei prodotti audiovisivi in Italia in sala e su piattaforma, partendo dal punto di vista del pubblico. Obiettivo: godere di un cinema sostenibile e di qualità.

Guida il progetto Piera Detassis, Editor at large Cinema & Entertainment di Hearst. I contenuti del progetto sono visibili sulle testate e su tutte le properties digitali del gruppo Hearst. Ringraziamo il regista Gabriele Mainetti che ha scelto di partecipare al progetto curando la direzione creativa e la realizzazione della campagna Movie Confidence, con l’obiettivo specifico di sensibilizzare l’opinione pubblica, sostenere il consenso e il desiderio di tornare in sala. Il progetto Hearst Movie Confidence è realizzato con il supporto di: 01 Distribution, EaglePictures, Medusa Film, Goon Films, Vision Distribution, AGIS, Associazione Generale Italiana dello Spettacolo, ANEC, Associazione Nazionale Esercenti Cinema, ANICA, Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Multimediali, FICE, Federazione Italiana Cinema d’Essai.

IL FILM
Un circo. La Roma del 1943, occupata dai nazisti. E «quattro freak, individui unici e irripetibili, protagonisti di una Storia più grande di loro». Sei anni dopo il successo di Lo chiamavano Jeeg Robot (prodotto dalla sua Goon Films e vincitore – tra gli altri riconoscimenti – di sette David di Donatello, due Nastri d'argento, quattro Ciak d'oro e del Globo d’oro) Freaks Out, il secondo, attesissimo lungometraggio di Gabriele Mainetti, è «insieme un racconto d’avventura, un romanzo di formazione e – non ultima – una riflessione sulla diversità». Con protagonisti Claudio Santamaria, Pietro Castellitto, Giancarlo Martini e Aurora Giovinazzo, con la partecipazione di Giorgio Tirabassi e con Max Mazzotta e Franz Rogowski, il film, che è stato protagonista alla 78° Mostra del Cinema di Venezia, sarà al cinema dal 28 ottobre.
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