Se è vero che il capo ideale è donna, poiché spesso il gentil sesso possiede qualità fondamentali come la capacità di comunicazione, l'empatia, la disponibilità e l'apertura, è altrettanto vero che alcune "cape" non lo sono affatto. La leadership femminile potrebbe comprendere, infatti, anche atteggiamenti di bullismo nei confronti di altre donne. Osservata da un gruppo di ricercatori dell’università del Michigan negli anni 70 la sindrome dell'ape regina si verifica infatti quando un capo donna rivolge le proprie ostilità quasi esclusivamente verso dipendenti donne. Abbiamo incontrato Stefano Gheno, docente di Psicologia delle Risorse Umane, Università Cattolica di Milano nonché membro del comitato scientifico della Casa della Psicologia (Ordine degli Psicologi della Lombardia), per conoscere meglio e potersi di conseguenza proteggere da questa donna alfa.

Perché una capa può essere spietata?

I motivi possono essere molti e risiedono, in particolare, nella necessità di preservare il territorio. Le donne fanno molta più fatica degli uomini a raggiungere posizioni di comando e non è, quindi, strano che abbiano una maggiore paura di perderle. Se consideriamo poi che gli uomini non vengono considerati veri competitori, perché le donne per diventare capo devono in qualche modo assimilare il loro stile di comportamento, resta che le “vittime designate” sono le altre donne, percepite come più deboli dei maschi. Con una dinamica simile a quella tipica dei bulli: esplicito il mio potere rinforzando la debolezza altrui.

I comportamenti da “ape regina” sono più diffusi in ambienti maschilisti?

Certamente gli ambienti maschilisti forniscono più giustificazioni all’assumere uno stile di comportamento percepito come più “virile”. Inoltre, la tensione a essere accettate nel “club” di chi comanda davvero enfatizza l’esigenza di affermare il proprio potere attraverso la sottomissione delle altre donne, che appunto vengono scelte per la loro presunta debolezza. Infine, non va sottovalutato il fatto che ambienti sessisti portano in generale a sottovalutare comportamenti discriminatori, comunque siano agiti.

Come proteggersi dalle sue "punture" ed evitare di cadere nella sindrome dell'"ape operaia"?
La soluzione del problema risiede certamente in un intervento sulla cultura organizzativa, che porti a valorizzare la diversità di genere come fattore di ricchezza per l’organizzazione e, conseguentemente, renda inutile se non controproducente assumere tipizzazioni di “maschiliste”. Ciò detto, è importante non colludere con un’accezione di potere inteso come sottomissione dell’altro(a). La risposta più efficace alla prepotenza e all’invisibilità è rendersi visibile, senza paura di prendere posizione, di affermare le proprie idee. Cercando allo stesso tempo alleanze e relazioni supportive e senza cadere nella trappola della disistima personale indotta.


Quale dovrebbero essere le qualità di un capo ideale?
Uomo o donna, un capo dovrebbe essere bravo, cioè facilitare i propri collaboratori nell’esprimere le proprie potenzialità in vista degli obiettivi, organizzativi, ma anche personali, da raggiungere. Così un buon capo deve essere capace di prendersi cura delle sue persone e deve farle crescere, orientandone il lavoro al risultato. Per fare questo, c’è bisogno di utilizzare competenze che – in modo un po’ stereotipato – comunemente attribuiamo e al maschile e al femminile. In questo senso, possiamo ricorrere alle due nozioni di codice materno, che privilegia la cura e valorizza comportamenti di appartenenza, e paterno, più orientato a capacità e prestazione.

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