Non è che si capisca tanto bene, però, stando al titolo, Aldo Grasso prende una certa posizione su Gino Paoli e sulla sua presunta evasione. Scrive un pezzo “con le mani malate”, Grasso. Parla di faciloneria, errori e diventa melanconico nel giustificare la Grande Delusione. Del resto il giustizialismo fiscale è una bella molla di ressentiment nietschiano, è facile fingersi Robin Hood oggi, con la gente in cassa integrazione, gli esodati e tutta l'incazzatura che cova sotto la patina grattabile del turistapercaso da 5 euro. Ma il punto è: veramente Grasso è convinto che il tradimento morale distrugga i sogni che costruiscono gli artisti? Gino Paoli è un signore polveroso, un vecchio poeta magari un po' vittima di se stesso, un ligure evidentemente risparmioso (ah, quant'è difficile smentire i luoghi comuni...) che se l'è goduta alla grande (no, dico, avete presente la Sandrelli che cos'era all'epoca?).

Gino Paoli, diciamo la verità, se la spassava anche alle feste dell'Unità, dài. Come ha raccontato Paolo Conte, «erano fantastiche quelle trasferte emiliane, con quel magnifico odore di maiale alla griglia». Erano anni in cui il nero non faceva paura a chi si sentiva un po' rosso, anzi. Non c'erano le bandiere nere dell'Isis, ma i tubini neri, che andavano bene per qualsiasi occasione. Tutti stavamo meglio ed eravamo molto meno risentiti verso chi stava molto meglio di noi. Non ci saremmo mai inalberati così, indignati così o depressi così come il triste Grasso davanti alla tastiera. Soprattutto, forse senza saperlo e addirittura senza aver studiato l'estetica crociana, avremmo avuto uno sguardo più lucido, nella banale valutazione che non si può mai identificare la vita con l'arte, che farlo è stupido e inutile quanto scoprire che Leonardo Da Vinci era gay. Caravaggio era un omicida condannato a morte: chi se la sente di affermare che il suo uso della luce non abbia rivoluzionato la pittura?

Meglio non esagerare, direte, ed è vero. Lasciamo che a dissacrare sia la rete, cui tutto è concesso. Lasciamo che si scherzi su quell'«eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il conto». La rete, in fondo, ci ha abituato a dissacrare senza uccidere i sogni di nessuno. Ma chi fa il critico, dai, dovrebbe lasciar perdere le fesserie che al massimo potrebbero servire a fare il pieno di like su facebook. Un critico, anche se di musica leggera, o forse proprio perché di musica leggera, dovrebbe evitare il moralismo.