Possiamo farla finita con la Bloggergiornalimachia?

Detesto la parola “articolessa”. Mi fa venire in mente una trapezista di circo, grassa. Ma non è l'uso di questo vocabolo ciò che contesto al pezzo di Massimo Mantellini, su Il Post. Stimo Manteblog e molto spesso concordo con la sua visione, che beneficia di anni di esperienza online, ma indicare l'episodio del video della sparatoria nella quale sono rimasti uccisi Alison Parker e Adam Ward come ennesima dimostrazione dello stravolgimento etico del giornalismo per rincorrere i numeri del digitale è davvero pretestuoso. Verrebbe da dire che è anche un po' sospetto: quanto bene si indicizzava un pezzo con tag video + sparatoria in quella giornata? Molto, anche se mi rifiuto di pensare che uno come Mantellini lo abbia fatto per questo. Ma il punto è che trovo storicamente falsa la sua tesi. È falsa perché il tema dell'etica del pubblicabile, dell'osceno artistico, della pornografia del macabro, di quella carrellata di informazione spazzatura che ci racconta con esilarante elencazione non è il frutto della disperata rincorsa delle case editrici italiane sul web. È il frutto di una logica e di una strategia che nei giornali esiste da sempre. Quella rincorsa c'è, nessuno lo nega, e che sia imbevuta di una sorta di scienza esatta dettata dal marketing digitale e dei social media è altrettanto vero. Ma ciò avviene, banalmente, solo perché invece di avere i giornali spazzatura, oggi abbiamo i siti spazzatura. Che poi sono la maggior parte dei siti nel mondo. Non voglio cedere alla tentazione di una polemica sulla strategia che quasi tutti applicano, ovvero quella dei guardiani dell'informazione in sala e i pornografi in cucina a sporcarsi le mani. Preferisco riflettere su qualche domanda che porti, prima o poi a farla finita con questa guerra narcisistica tra professionisti che, invece, dovrebbero stare dalla stessa parte, ovvero dalla parte di tutti quelli che scrivono non per se stessi ma per gli altri, per essere utili, per fare riflettere, piangere, divertire, emozionare.

È davvero importante chi è più bravo?

La differenza tra un bravo blogger e un bravo giornalista è sempre meno riferibile a uno stipendio fisso, alto o basso che sia. Il crollo dei giornali, la sparizione delle edicole, i licenziamenti, hanno già definito (forse anche da più di un decennio) la fine di un sistema cartaceo ormai considerato da tutti costoso, inquinante nonché corrotto da privilegi e da troppe affettuosità con i poteri forti. Chi è rimasto in piedi, nei giornali, oggi si fa un culo così e guadagna molto meno di quello che un parigrado guadagnava negli anni Ottanta e Novanta. Chi, tra i giornalisti di carta, è fuori e lavora da freelance, combatte quotidianamente lotte per fatture misere pagate a 90 giorni. E una volta che prova a cimentarsi online è quantomeno spaesato, il mondo gli si è ribaltato addosso, scopre che se prima non poteva mai infilare una ripetizione in un pezzo oggi è costretto a farlo, mentre tante altre nuove regole non riesce manco a capirle. Dal canto suo il bravo blogger avrebbe certamente potuto diventare un giornalista professionista più talentuoso di tanti che scaldano il banco nelle redazioni ipertrofiche d'Italia. Bene, ma perché dovremmo darci addosso così in questa situazione?

Essere online costringe davvero tutti a fare più spazzatura di prima?

Sì, l'effetto che fanno i giornali migrati online è sempre un po' quello che dice Mantellini: che on e off, pur portando lo stesso nome di testata "autorevole" appaiano come prodotti diversissimi è un dato incontrovertibile. L'esigenza della foto del gattino riempitraffico ci ha resi schizoidi. Tutto vero: se voglio leggere l'editoriale di Calabresi devo accettare che faccia capolino il gattino di lazampa.it. Del resto la schizofrenia riguarda anche le inserzioni pubblicitarie, perché se la notizia di una retata di spacciatori all'università mi fa apparire un banner della Cepu sul web non ci faccio caso, ma se pubblico la pagina adv di uno stilista accanto a una sua intervista sul cartaceo, lo scandalo e la vergogna invaderanno tutta la redazione. È la stampa online, bellezza, e un megadirettore americano che potrebbe essere quello del New York Times, se mi ricordassi dove ho letto la notizia, ha già alzato le mani: «Siamo il più antico e potente quotidiano d'America e il nostro concorrente principale online è un gatto dismorfico (Crumpy cat, ndr)». Ma togliamoci dall'imbarazzo del cagnolino con gli occhiali da sole e facciamo sul serio. Dice Mantellini che soltanto i cinici e squali giornali italiani sul web hanno pubblicato il video dei giornalisti uccisi. E allora cosa dobbiamo pensare dei seguenti casi, tutti o in gran parte riferibili al giornalismo tradizionale internazionale?

1) L'istante dell'uccisione del soldato fermato dal fotografo Robert Capa.

2) L'impiccagione di Saddam Hussein.

3) La caduta lunga e disperata di chi si buttava dalle torri gemelle l'11 settembre 2001.

4) Il prigioniero dell'Isis che brucia vivo in una gabbia (e tutti gli altri sgozzati).

5) Ceausescu in rigor mortis.

6) Il letto insanguinato della casa di Cogne.

7) I video delle telecamere che riprendono rapine nei negozi.

8) Le foto degli stupri delle truppe di stanza in Somalia nel 1993.

9) I torturati nelle prigioni di Guantanamo.

10) I cadaveri galleggianti dopo le tragedie aeree.

Di esempi ce ne saranno infiniti e in tutti i casi è quella "pancia" pornografica che si vuole stimolare. Da sempre. Qual è l'ipocrisia visiva che ci fa dire questo sì, questo no? Non lo sappiamo, non lo abbiamo mai saputo o voluto sapere. Parliamone. Però, adesso, riferirla a un nuovo cinismo da giornalismo web non ha molto senso. Nel 1989, lo scrittore William Kotzwinkle (che non tutti sanno essere l'autore di E.T.) pubblicò un libro che, dato il dibattito è illuminante ancora oggi. In Italiano si intitola La Gazzetta di Mezzanotte (Leonardo, ma è finito quasi subito al macero quindi ne girano poche copie) e contiene scene demenziali ma assai realistiche ambientate in una redazione di giornali spazzatura. Leggete un po':

«...Nella cella accanto alla mia il direttore del nostro redditizio settimanale, La Gazzetta di Mezzanotte, stava scegliendo alcune foto di divi del cinema e atleti, scartabellando nel raccoglitore delle immagini di "interesse umano", con i suoi toccanti ed eroici idioti, madri di quattro anni, persone salvate dai loro animaletti, oltre al solito ermafrodita e a un tale che nell'intestino aveva un'anguilla viva. Tutti gli articoli della Gazzetta di Mezzanotte erano frutto dell'ingegno di questo direttore, Hip O'Hopp, un anziano giornalista che non avevo mai visto sobrio. Allungando il collo mi guardava da sopra il divisorio che separava le nostre due celle. "Puoi farmi un pezzo su una donna che partorisce cagnolini?"

"Per quando ti serve?"

"Per le cinque."

Presi un appunto sul mio taccuino, "Donna partorisce cagnolini" e lo inserii tra le altre cose che dovevo fare quel giorno. Nei panni del dottor Howard Husbands dovevo curare la rubrica medica per "Donna mese", la nostra rivista femminile la cui diffusione nei caseggiati popolari e nei campeggi batteva di gran lunga quella di ogni altra pubblicazione...».

Era il 1989 e nessuno usava internet.