A pranzo con alcune mamme piuttosto giovani, un giorno di fine inverno, si arriva subito a parlare del “dramma” aerosol. Solo che se le madri in questione sono ricercatrici in ambito biomedico si sentono frasi come «ti mando l’ultimo studio che ho letto sull’aerosol e non sempre funziona». Penso al prezioso documento che risponderebbe ai dubbi di molte famiglie e quando mi trovo faccia a faccia con la mamma in questione ne chiedo subito conto. «Guardi, alla fine l’ho comprato. Ho resistito un anno ma poi ho ceduto. Effetto placebo, si chiama, ma su di me, non sul bambino», scherza Lavinia Morosi, 36 anni. Nel tempo che non dedica al suo Enea di poco più di un anno, si occupa di ricerca farmacologica contro i tumori all’Istituto Mario Negri di Milano.

Siamo nella sede di Bergamo, dentro il parco scientifico Kilometro Rosso, per fotografarla insieme alle colleghe. Tutte fra i 30 e i 40 anni: sono parte di quel 65% di ricercatrici donne (con il 51% tra i 20 e i 40 d’età) di cui l’istituto, specializzato in ricerca biomedica e farmacologica, va giustamente fiero. Una percentuale molto sopra la media, rafforzata dalla scelta del direttore Giuseppe Remuzzi di nominare due coordinatrici donne, fatto eccezionale nel panorama non solo italiano.
Ci accoglie all’ingresso una di loro, Ariela Benigni. La formazione dei giovani è da sempre un pilastro dell’Istituto e Benigni crede molto nelle possibilità di carriera per le colleghe: «Siamo nati negli anni 60 come scommessa di un filantropo su alcuni giovani ricercatori e la sfida di trasmettere conoscenza non si è mai fermata, nonostante gli scarsi finanziamenti, che, ci tengo a precisare, sono senza colore politico». Trattenere talenti o farli tornare dall’estero sembra quindi sempre più difficile. In più «per le donne nella scienza la voglia di studiare viene premiata fino a un certo punto, poi si nota uno stop verso i livelli più alti. È un mix di cause sociali e, per la mia generazione, è anche un retaggio educativo che ci porta a essere meno intraprendenti, a fare sempre un piccolo passo indietro. Lo vedo che le più giovani hanno un atteggiamento diverso».

Istituto Mario Negri Bergamopinterest
Niccolò Rastrelli
Tumori, malattie cardio-vascolari e renali, trapianti, sistema nervoso: sono alcuni degli ambiti di ricerca del Mario Negri. I cittadini possono usufruire di servizi al pubblico, come quello di consulenza sui farmaci per donne incinte e anziani o avere informazioni dal centro sulle malattie rare.

Le intervistate non amano le definizioni del tipo “ricerca al femminile”, lasciano intuire. Immaginate, però, una tubatura che sale a gradini. A ogni giuntura perde qualche goccia. È il disegno che l’Unesco ha visualizzato per descrivere le donne nelle materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria, matematica). Dalla laurea al dottorato, verso i ruoli di comando, è un tubo che al Mario Negri pare essere stato riparato, viste le percentuali che azzerano il gender gap nei laboratori. «Rispetto a fisica o informatica, biologia e scienze biomediche sono materie più studiate dalle donne», mi spiega Francesca Pischiutta, neuroscienziata esperta di cellule staminali per la cura del trauma cranico, «e non dimentichiamo che i vertici attuali nella ricerca, persone dai 50 anni in su, riflettono l’università di trent’anni fa, quando le classi erano fortemente sbilanciate. In molte materie ormai le ragazze sono numericamente alla pari». Chi nel gruppo si occupa più di tecnologia avverte ancora il divario, come Anna Caroli, responsabile dell’unità di elaborazione di immagini biomedicali: «Nel mio ambito la differenza si vede, anche se non l’ho mai vissuta come un ostacolo, nemmeno quando frequentavo matematica. In effetti partecipo a un progetto europeo con altri otto centri e io sono l’unica donna al tavolo dei rappresentanti».

Istituto Mario Negri Bergamopinterest
Niccolò Rastrelli
La sala studio della biblioteca. L’Istituto Mario Negri svolge ricerca indipendente dall’industria e dallo stato. Al solo servizio dei malati, non brevetta le scoperte e da un singolo finanziatore non accetta più del 10% del bilancio. Per questo sono fondamentali il sostegno di filantropi e le donazioni private, come il 5 per mille (CF: 03254210150).

La permanenza nel tubo è messa alla prova, sono tutte d’accordo, dall’arrivo del primo figlio. Sara Conti, responsabile di un delicato microscopio 3D, ha due bambini: «Le donne “gocciolano” fuori perché è difficile tenere tutto insieme. Arriva quel momento, dopo che hai studiato tanto e cominciato ad affermarti, in cui ti chiedi se stai facendo abbastanza perché non porti a scuola tuo figlio o non gli prepari lo spezzatino. E lì è cruciale chi ti trovi accanto. Quando il mio aveva quattro mesi ero indecisa se partecipare a una prestigiosa conferenza a cui ero stata invitata. Mio marito ha cancellato ogni dubbio e mi ha accompagnata in Finlandia. Eppure quando mi sono trovata lì ho avuto un crollo: “Cosa ci faccio qui a migliaia di km dal mio bambino?”. Con il tempo sei tu che cerchi di non essere una goccia fuori dal tubo: dopo tutta la fatica, non vuoi proprio abbandonare». «È lì che inizi a correre. Non è così per tutte?», dice Sara Castiglioni, che studia il consumo di droghe a partire dall’analisi delle acque reflue e ha un bimbo di quasi tre anni. «Certo, il lavoro in laboratorio richiede estrema concentrazione, ma non sono l’unica che alza la testa dall’esperimento, o dal computer, e pensa “è oggi che scade l’iscrizione all’asilo?”». Un nome che mi aspetto di sentire da quando metto piede in Istituto è quello di un faro assoluto per le donne nella scienza e non solo, ma Lavinia Morosi cita Rita Levi Montalcini in modo inaspettato: «Quando ho letto la sua autobiografia ho ovviamente ammirato la totale dedizione alla conoscenza, ma ho anche capito che non volevo sacrificare la mia vita privata allo stesso modo».

Istituto Mario Negri Bergamopinterest
Niccolò Rastrelli
Il prezioso microscopio 3D “Scanning Electron Microscope (Sem)”, è di norma usato su materiali dell’industria, mentre qui per campioni biologici. Con il Sem, Sara Conti ha fotografato per la prima volta i pori del sistema di filtrazione dei reni: «Il momento più emozionante in 18 anni di ricerca».

Più del Premio Nobel per la medicina, sono i compagni di queste ricercatrici a essere spesso evocati nei discorsi sulla carriera, per il loro sostegno: chi ha preso la paternità («un mese tutto per lui, gli è piaciuto molto»), chi è il primo fan della propria “scienziata” («mi dice sempre “stai andando benissimo” o “non ti preoccupare della cena”»), chi diventa creativo («quando sono in trasferta staccano i bigliettini da un aereo disegnato con i bambini per capire quanto manca al mio ritorno»), chi ha mollato tutto per seguirla da altre regioni («non è mai stato in discussione che il mio lavoro avrebbe potuto portarci altrove»). Insomma, nel tubo si rimane se c’è un team a tamponare alcuni buchi: un’immagine famigliare anche a chi non si occupa di scienza.

La precarietà incide sulla coppia più delle tante ore di lavoro. Ed è un fattore che non c’entra con il genere. «È un mosaico di borse di studio, assegni di ricerca, finanziamenti a due o tre anni quando va bene. Non è tanto l’ansia personale a bloccare la costruzione di una famiglia, perché, in fondo anche da precaria, ho lavorato ogni giorno dalla laurea, ma è il mondo a non essersi adattato a questa nuova condizione. Mio padre ha dovuto garantire per me quando pagavo l’affitto. Per non parlare di quando provi a comprare casa», spiega ancora Lavinia.

Le due più giovani del gruppo hanno 30 anni. Martina Violatto studia metodi per il rilascio preciso dei farmaci nell’organismo e terminerà il dottorato a fine anno: «Avevo qualche timore quando dovevo dire di essere incinta, ma è stato il mio capo a dirmi “bene, sfrutta il periodo alla scrivania per scrivere articoli e progetti da finanziare. Anche questo è fare il ricercatore”». L’altra, Elena Romano, è un’esule italiana, trasferita a Bergamo da Salerno, e ora studia le possibili applicazioni delle staminali grazie a una borsa di studio della Fondazione Armr - Aiuti per la Ricerca sulle Malattie Rare: «Ho sempre saputo che non avrei potuto vivere vicino casa con questo lavoro. In questo periodo mi sto rendendo conto che gli anni passano e inizio a pensare alla vita personale. Intanto il mio fidanzato si è trasferito qui e, quando vedo le colleghe con una famiglia, capisco che ce la si può fare. Quando sono in crisi, metto su il camice e vado a studiare le mie cellule. E so che non avrei voluto fare altro».

Nella foto di apertura, alcune scienziate dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri ritratte nella sede di Bergamo. Da sinistra. Sara Conti, 37 anni, dipartimento di medicina molecolare; Rossella Piras, 36 anni, laboratorio di immunologia e genetica delle malattie rare; Anna Caroli, 39 anni, dipartimento di bioingegneria; Martina Violatto, 30 anni, dipartimento di biochimica e farmacologia molecolare; Elena Romano, 30 anni, laboratorio di terapia genica; Lavinia Morosi, 36 anni, dipartimento di oncologia; Francesca Pischiutta, 34 anni, laboratorio danno cerebrale acuto.