«Capitolo primo. "Adorava New York. La idolatrava smisuratamente...". Ah no, è meglio "la mitizzava smisuratamente", ecco». Alzi la mano chi non ha ascoltato almeno una volta questo incipit, scandito dalle note di George Gershwin. È l'inizio del film Manhattan, opera gioiello diretta da Woody Allen che quest'anno soffia su 40 candeline. Mai, nella storia del cinema, c'è stato un omaggio più appassionato, più intenso e più profondo per la città di New York. Una sublime sintesi di dramma e commedia.

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Tutto gira alla perfezione: dai personaggi (Isaac, Mary e Tracy) alla sceneggiatura, scritta da un Allen in stato di grazia insieme a Marshall Brickmann; dalla fotografia di Gordon Willis con quel bianco e nero più realistico del colore («è così che erano i film che vedevo da bambino. È così che ricordo New York», raccontò lo stesso Allen) fino alle note di brani come Rhapsody in Blue e Embraceable You (se Manhattan è stato girato, è merito dell'amore che il regista provava per Gershwin).

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Allen con Diane Keaton

La storia è quella di un autore televisivo di 42 anni, appena divorziato da Jill (una bellissima Meryl Streep). Isaac esce con la liceale Tracy (Mariel Hemingway) ma teme che il legame con la studentessa lo renda ridicolo e così cerca di convincerla ad andare a studiare recitazione a Londra, Nel frattempo frequenta anche la più sofisticata Mary (l'immancabile Diane Keaton). La svolta arriva mentre se ne sta disteso sul divano a domandarsi i motivi per cui vale la pena vivere. Una scena memorabile in cui si elenca «il vecchio Groucho Marx per dirne una e... Joe DiMaggio e... secondo movimento della sinfonia Jupiter e... Louis Armstrong, l'incisione di Potato Head Blues e... i film svedesi naturalmente... L'educazione sentimentale di Flaubert... Marlon Brando, Frank Sinatra... quelle incredibili... mele e pere dipinte da Cézanne... i granchi da Sam Wo... il viso di Tracy...». Isaac si rende conto così di quanto gli manchi davvero Tracy. Così decide di raggiungerla a casa sua. La incontra circondata dalle valigie, proprio mentre sta per partire. Lui le chiede di restare, lei gli chiede di aspettarla. «Sei mesi non sono tanti. E non è che tutti si guastino», gli dice Tracy. «Bisogna avere un po' di fiducia nella gente».

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Raramente il regista americano ha raggiunto un connubio così armonioso tra scrittura ed eleganza. Pur essendo un omaggio alla città americana per eccellenza, è forse la sua opera più europea di tutte. Per 96 minuti, infatti, si respira un’atmosfera dolce, delicata, che riesce a nascondere con garbo tutte le contraddizioni dell'universo americano. A tratti sembra quasi girato da Truffaut o Godard. A 40 anni di distanza, oggi Manhattan è un classico. E il suo grande segreto è stato l'aver raccontato una generazione cinica come quella della fine degli anni 70 attraverso ironia e humour. Il tutto mixando sempre sorrisi e dolore, amarezza e ottimismo, perchè, come diceva Samuel Beckett, «non c'è niente di più comico dell'infelicità».