Seconda elementare, anni Ottanta. La maestra entra in classe e chiede: «Cosa vi piace di più di quello che facciamo a scuola?». La mia risposta è pronta: «Quando giochiamo all'impiccato!», che è quel rompicapo divertente in cui bisogna trovare una parola segreta, cercando di indovinarla a colpi di lettere. «Quella non è scuola Silvia, è un passatempo!», risponde la maestra. Io non capii il perché allora, e non lo capisco nemmeno adesso, trentadue anni dopo. Era un gioco didattico, di gruppo, e oltre che insegnare l’ortografia, insegnava anche a pensare e a raggiungere insieme ad altri un obiettivo. Seguire il programma senza divagare è ancora l’unico metro con cui si giudica quello che si impara?

Dimmi se sei felice

Parrebbe di no: oggi ci sono scuole dove i risultati si misurano in base a quanto i bambini arrivano in classe contenti. Il lavoro di gruppo, le responsabilità condivise e l'empatia sono le linee guida di alcuni dei metodi educativi più innovativi, che attingono alla migliore tradizione della pedagogia - vedi l’antologica Maria Montessori - per riscattare la scuola e i bambini dalla noia e da metodi di insegnamento spesso polverosi. Movimenti, associazioni, sfide quasi sempre nate dal basso, da gruppi di insegnanti e dirigenti illuminati, che hanno saputo dare una risposta concreta agli obiettivi suggeriti dall'alto. Quelli che sono stati indicati dalla Comunità Europea con il nome di Competenze Chiave di Cittadinanza. Otto abilità che i bambini e i ragazzi dovrebbero imparare nel loro percorso scolastico. Cosa cambia? Che non figurano solo le materie tradizionali, ma trionfano le soft skills, le abilità sociali e civiche, lo spirito di iniziativa e il rispetto per se stessi e gli altri, per esempio. C’è chi per capire cosa non funzionava nella scuola ha provato a togliere lo zaino dalle spalle degli alunni, chi ha creato delle moderne agorà all’interno delle classi, chi incoraggia gli studenti a parlare tra loro invece che a stare in silenzio, chi per rispettare i tempi di ogni singolo alunno ha ribaltato il metodo di insegnamento,inventandone uno che funziona al contrario.

Libri liberi

«La scuola tradizionale soffre di eccessi di passività, non solo in Italia,succede a tutte le latitudini», ci racconta Marco Orsi, che ha inventato il metodo Senza Zaino e l’ha raccontato recentemente nel libro-bibbia Dire Bravo non serve (Mondadori). In tutto sono 368 scuole, la maggior parte pubbliche, e oltre 28 mila studenti. «Lo zaino è un enorme peso messo sulle spalle dei bambini, poi però, quando entrano in classe, il loro corpo non esiste più perché l’attività diventa solo mentale, bisogna ascoltare, scrivere, leggere», dice Orsi. «Invece il corpo è fondamentale nel momento dell’apprendimento, che dovrebbe coinvolgere tutti i sensi. Togliere lo zaino vuol dire avviare un processo per migliorare la formazione e promuovere l’autonomia dei bambini». L’aula Senza Zaino non è un luogo dove si ascolta e basta, ma un laboratorio, in cui tutto è organizzato per rendere più efficace l’assimilazione della conoscenza. Al posto delle file di banchi ci sono tavoli condivisi, è un ambiente comunicativo, colorato, in cui le decisioni vengono prese dal gruppo. Ci sono sedie speciali per gli insegnanti, che affiancano il lavoro dei bambini, e c’è l’agorà, uno spazio educativo sull'esempio delle piazze dell’antica Grecia, dove ci si confronta, si decide insieme, si drammatizzano storie e si imparano le responsabilità. Ricerche dell’Università di Firenze hanno evidenziato che il metodo ha raggiunto alti livelli nel raggiungimento degli obiettivi educativi nazionali, sia negli aspetti cognitivi che in quelli relativi alle singole materie. E ha anche dimostrato quanto i risultati degli alunni spiccassero sopra la media nella dimensione empatica, ovvero nella costruzione delle relazioni con gli altri. «Abbiamo cinque sensi per conoscere il mondo,utilizziamoli di più», dice Orsi. «Sono fermamente convinto che i bambini debbano fare esperienza della tridimensionalità, della realtà vera, che è nei parchi, nei boschi, nell’incontro con le persone, come per esempio gli artigiani, che raccontano e fanno vedere il loro mestiere. La scuola è già fin troppo bidimensionale, i libri, i quaderni, la lavagna, e lo è anche lo schermo dei tablet. Va usato solo quando necessario. I neuroscienziati dicono che comprendiamo il mondo attivando la parte di cervello che contiene i neuroni del movimento. Quando leggo un romanzo lavora quella stessa zona, ma cosa posso capire di quel libro se non ho un’esperienza corporea ricca?». «I bambini devono fare esperienza della realtà, quella vera, che sta nei parchi, nei boschi, nell’incontro e nello scambio con le persone»

Classi capovolte

«L’Italia sarà anche un paese di santi, poeti e navigatori, ma noi non sappiamo lavorare ingruppo. Si litiga alle riunioni di condominio, si urla nelle grandi aziende, ci si picchia in Parlamento. La scuola deve insegnare ai bambini a non coltivare il proprio orticello, ma che il lavoro insieme è una ricchezza», dice Maurizio Maglioni, insegnante che appoggia il Metodo Capovolto, nato negli Usa e oggi diffuso in 50 paesi, dove «chi ne sa di meno è aiutato da chi ne sa di più, che a sua volta, nel momento in cui spiega una cosa, la consolida. Lavorare insieme non è importante per motivi etici, ma per la crescita personale!». La rivoluzione della Scuola Capovolta è stata quella di “capovolgere”, appunto, i tempi dell’apprendimento. «A scuola di solito si ascoltano le lezioni, ma l’ascolto, di per sé, genera un apprendimento scarno. Il momento più importante è quello in cui avviene l’elaborazione personale, che è l’esercizio, che di solito avviene a casa, quando lo studente è da solo. Abbiamo capito che questa dinamica andava invertita: bisognava fare i compiti a scuola e spostare a casa il momento formativo, grazie al pc, al tablet e alla connessione. Solo in questo modo ogni alunno può seguire la lezione al suo ritmo, mettere in pausa, tornare indietro se non ha capito. E l’insegnante, a scuola, ha più tempo perseguire tutti, dare compiti e consigli diversi a seconda delle esigenze di ogni alunno». Se nel modello tradizionale l’insegnantesi pone tra gli studenti, da una parte, e il sapere, dall’altra, con il modello capovolto gli studenti hanno diretto accesso alla conoscenza grazie all’uso del tablet a casa, e la maestra diventa una guida. «I primi a sperimentare il corretto uso delle tecnologie a scopo didattico sono gli insegnanti. Il problema è che in 70 annidi pubblica istruzione, in Italia non è mai stata richiesta la formazione continua, caso unico in Europa. È obbligatoria solo dall’anno scorso, ma non c’è un numero di ore fisso, quindi io posso fare cinque minuti di corso e stare tranquillo. E pensare chele nostre lezioni digitali sono le stesse previste dal piano del Ministero dell’Istruzione. La tecnologia va usata, ma bisogna formare anche i genitori. Molti non pensano che di uno smartphone si possa fare buon uso, lo usano solo per fare stare buoni i bambini». Nelle classi capovolte non esiste la regola del silenzio, si può parlare fino a quando il Vociometro, l’apposito strumento che misura il livello di rumore, lo segnala sulla lavagna interattiva, «e ironia della sorte, tutti si stupiscono di quanto silenzio ci sia nelle nostre classi, proprio per il fatto che permettiamo di parlare». Se nella scuola tradizionale la maestra spiega e i bambini seguono quello che dice, qui, prima di iniziare, si condividono gli obiettivi. «Facciamo capire ai bambini che non vogliamo insegnare loro solo delle nozioni, ma cerchiamo di stimolare il loro spirito di iniziativa. E poi chiediamo anche a loro se hanno obiettivi da condividere con noi insegnanti», dice Maglioni. «La scuola non può preparare a una vita astratta, ma deve insegnare cose che riguardano la vita vera»

Essere il cambiamento

Per l’organizzazione internazionale Ashoka l’innovazione didattica è una missione. Fu proprio il suo fondatore americano, Bill Drayton, a coniare per primo il termine di imprenditore sociale per indicarne i pionieri e poi ad applicare lo stesso modello, dalle aziende alle scuole. Se prima individuava i capitani d’impresa illuminati, oggi seleziona i modelli di insegnamento più evoluti, battezzati con il nome di Changemaker. «Se parliamo di educazione parliamo del tipo di società che vogliamo nel futuro, dove le competenze sociali saranno fondamentali e i bambini si dovranno sentire parte attiva del cambiamento», racconta Giulia Sergi, program manager di AshokaItalia. «Devono essere coscienti del fatto che possono cambiare le cose, non devono aspettare che siano gli altri a farlo per loro,dobbiamo crescere persone che sappiano dare delle risposte. Questa è un’abilità che va sviluppata attraverso modelli educativi in cui la leadership e l’apprendimento sono condivisi. Per questo, attraverso decine di interviste a esperti del settore come dirigenti scolastici, docenti, educatori e ricercatori individuiamo le scuole innovative sul territorio e creiamo delle connessioni in rete. Non ci siamo inventati un metodo, c’era già ed era nato dal basso. I fattori comuni sono la libertà degli studenti di scegliere le materie da seguire, la creazione di spazi comuni ma anche momenti di apertura alla comunità esterna, al territorio, con esperienze di volontariato. Classi in cui gli studenti imparano a comunicare le proprie emozioni, a mettersi nei panni degli altri e a fornire idee di come si può migliorare la comunità scolastica, fin dalla più tenera età».

Nuove sfide

Bambini, genitori, insegnanti e dirigenti saranno al centro del salone Sfide. La scuola di tutti, un evento organizzato all’interno della fiera Fa’ la cosa giusta! (dal 23 al 25 marzo a Fieramilanocity), da Terre di Mezzo e dall’associazione di insegnanti Officine Scuola, un'associazione di dirigenti scolastici, insegnanti e formatori. Tre giorni di seminari, convegni e attività pratiche che spaziano dalla tecnologia alle metodologie didattiche innovative. Si va da chi fa scienze e matematica all’interno delle cucine, con la pesatura e i multipli, alle scuole con atelier digitali d'avanguardia, ai bambini che costruiscono da soli le stampanti 3D. Si incontrano dirigenti che scolastici che usano la coltivazione agricola come progetto educativo, o il liceo di Palermo che ha vinto un bando e ha aperto un bar all’interno dell’istituto, facendone un luogo di studio e di scambio di idee incompleta autogestione. «La prima sfida oggi è riportare l’attenzione di tutti sulla scuola», dice Stefania Giacalone,docente del gruppo Officine Scuola, «non solo di chi ci lavora ma ditutta la società. È proprio da lì che si può ripartire, se siinveste si raccoglie nel futuro. Ma spesso i genitori si concentrano di più su quello che mangiano i figli in mensa piuttosto che su ciò che imparano. Abbiamo una linea guida europea che ci dice quanto siano importanti traguardi come l’imparare a essere flessibili, perché la vita lo impone e lo imporrà sempre di più, come il sapersi mettere in gioco e guardarsi dentro. Ma le cosiddette soft skills vengono quasi sempre relegate a competenze di serie B quando invece per i bambini sarebbero quelle più importanti da coltivare. La scuola deve insegnare a vivere. E noi quanto lo stiamo facendo?