Il mare dentro. Ha convinto Google a lanciare Ocean, la parte acquatica di Google Earth. Ha dedicato un pesce a Barack Obama per ringraziarlo di aver creato la più grande area marina protetta del mondo (vicino alle Hawaii). Ed è protagonista del documentario Mission Blue, prodotto da Netflix. L’appellativo di Sylvia Earle, oceanografa ed esploratrice, è “Sua profondità”.

A 81 anni non smette di immergersi con la sua organizzazione Mission Blue, che protegge “hope spots” marini in giro per il mondo. L’abbiamo incontrata nelle Baleari, dove grazie a una partnership con il programma Biotherm Water Lovers organizzerà una spedizione scientifica. Lo scopo: verificare lo stato di salute di questo angolo di paradiso per alghe e tartarughe.

Siamo poco inclini a proteggere i mari? Sì, circa il 12% della terra è tutelato, mentre meno del 4% dei mari lo è. Perché siamo terrestri per natura e, soprattutto, se guardiamo l’oceano solo dalla superficie ci sembra identico a cento anni fa. Non ci accorgiamo che si è svuotato di pesci. Io ho visto la differenza in mezzo secolo di immersioni.

Di cosa è stata testimone? Di ciò che abbiamo perso, ma anche dell’enorme conoscenza acquisita. La buona notizia è che siamo in tempo per cambiare le cose, ma non possiamo aspettare.

Perché il mare è parte di noi? Immaginate una Terra senz’acqua. Immaginate di vivere su Marte. Gli oceani rendono questo mondo abitabile. Quando mi chiedono quali sono le mie creature marine preferite rispondo sempre gli esseri umani.

I problemi di cui spesso parla sono grandi questioni, come la pesca aggressiva o l’inquinamento, cosa può fare una singola persona? Cento anni fa pensavamo di poter prendere dai mari tutto quello che ci serviva. Oggi sappiamo che non è così e siamo consapevoli di cosa sbagliamo. Ognuno può imparare di più sul mondo marino, cercare su internet, sostenere le cause che ritiene giuste con i propri mezzi, inclusi i social media.

Quanto conta la comunicazione? Molto. Una volta pensavamo a elefanti e tigri solo come numeri. Poi abbiamo scoperto che hanno interazioni sociali e abbiamo iniziato a provare empatia. È cambiato anche l’atteggiamento verso gli squali, dopo che abbiamo capito che non siamo sul loro menu. Spero succeda lo stesso con i tonni, che ormai sono pochissimi. Ho scelto di non mangiare più pesce. Se assaggiate un tonno fatelo con il massimo rispetto: ogni tonno conta (sorride).

Cosa sono gli “hope spots”? Angoli marini che dovrebbero essere preservati per la loro biodiversità o perché sono in pericolo. Chiunque può nominarli sul nostro sito. Il comitato scientifico di Mission Blue li sceglie e poi sosteniamo partner locali per arrivare a dichiararli protetti. Come suggerisce il nome, sono la nostra speranza.

Il mare ha ispirato molte storie di fantasia, la sua preferita? Direi i serpenti marini. Mi chiedono spesso anche delle sirene. La loro leggenda è stata alimentata per secoli dai dugonghi, mammiferi stupendi, grassocci e seducenti (ride). La realtà sott’acqua è affascinante di per sé,non serve inventarci storie. Basta scendere a scoprirla.

Nel 1964 ha lasciato marito e figli piccoli per la prima spedizione, come sarebbe stata la sua vita se avesse preso una decisione diversa? Fin da ragazzina sentivo che volevo diventare una scienziata, solo che non sapevo ancora dare un nome a questa vocazione. Uno scienziato è un bambino che si pone domande guidato dal senso di stupore. Era una fame, non una vera scelta. Credo che sarei comunque arrivata dove sono ora.

Pensava di rompere le barriere per le studiose che sarebbero arrivate dopo di lei? Non consapevolmente. In quella spedizione ero l’unica donna su 70 uomini, ma anche l’unica esperta di botanica marina! Ogni volta che presentavo domanda per una missione sorprendevo tutti: nessuno si aspettava che potesse farlo una donna. Troppo faticoso, troppo pericoloso. Una volta mi hanno accettato dicendo: «Se metà dei pesci sono femmine, non potrà farci male avere una donna a bordo» (ride).