Non ci sono statistiche su quante lo fanno e come lo fanno. Ma indicazioni precise sì. Le ultime, quelle dell’Organizzazione mondiale della sanità, consigliano l’allattamento esclusivo al seno per 6-8 mesi e quello misto ad altri alimenti almeno fino al primo anno. Incoraggiano il rooming-in, ossia la sistemazione del neonato nella stanza della mamma, e la preparazione del personale sanitario per aiutare le madri ad allattare già mezz’ora dopo il parto.

Ma c’è di più. Oggi sulle confezioni di latte artificiale è obbligatorio scrivere che “il latte materno è il miglior alimento nutrizionale per il neonato”. Negli Usa qualcuno ha anche provato a vendere latte materno: ci sono banche attrezzate, costo 5 dollari all’oncia (circa 28 grammi); mentre a Londra la gelateria Ice creamists ha proposto Baby Gaga, il primo gelato a base di latte umano. Stranezze a parte, la scelta allatto o no?) è ancora (e per fortuna) tutta materna. E mentre i focus group sul web si sprecano,le mamme si organizzano.

Laura Seganti, giornalista di Marie Claire, mamma di Daniele, 3 anni, e Martino, 6 mesi

Il segreto è iniziare subito. Io volevo sentirmi come le maori di un docufilm sulle mamme di altri paesi: che naturalezza. Mi ha spiegato cosa fare una fantastica pediatra del consultorio di Albissola: lì pareva tutto facile. Così quando è nato Daniele me lo sono attaccato subito, 40 minuti dopo il parto: ero distesa, lui su di me, quasi a testa ingiù. L’ho allattato a richiesta, quanto e quando voleva lui. E così pure Martino, il mio secondogenito. L’ho fatto dovunque, con Daniele siamo partiti in campeggio con il pulmino 15 giorni dopo la nascita; con Martino è stata la volta della barca a vela. Certo, non il giro del mondo, solo il mare della Liguria, ma in assoluta tranquillità. Del resto cosa c’è di più comodo del latte materno: è tutto a portata di tetta, dosaggio e temperatura giusti. E il legame che si crea è meraviglioso, anche se ogni tanto mentre allatto trasgredisco, guardo l’iPad. Quello che non è naturale è svegliarsi nel cuore della notte per preparare il biberon. Di latte, poi, ne ho sempre avuto tanto. E adesso che sono rientrata al lavoro ho il magico aiuto, il tiralatte elettrico, insostituibile partner insieme a biberon sterilizzati e borsa frigo. Quando ho la montata, mi chiudo nei bagni della redazione (ma mi è capitato di farlo anche nello showroom di una grande griffe!), lo attacco et voilà, il gioco è fatto. Un Pony Express lo porta a casa. Se non serve subito, viene messo in frigo (lì dura 48 ore) oppure in freezer (anche sei mesi). In viaggio è più complicato: lo devo congelare e mettere in valigia, in cabina non si può portare. Ma continuo, perché so che serve per aumentare le sue difese immunitarie. Consigli? Uno solo: un compagno/marito che ti aiuti e incoraggi. E dei fantastici nonni che si organizzino in base alle scorte di latte.

Kiersten Pilar Miller, fondatrice dei Milk Bar, mamma di Milly, 5 anni

Ho allattato Milly fino a tre anni e mezzo. Il latte della mamma non ha scadenza, era facile e naturale: perché smettere? L’ho fatto dovunque, senza nessuna vergogna: nel metro a New York, a una partita di baseball, a una montagna. Molte mamme mi guardavano con un misto di stupore e ammirazione. Ho sentito anche tante critiche. In pubblicità vediamo tanti biberon, ma è raro vedere una donna che allatta il suo bimbo. Mi sono chiesta spesso perché. Nel passato donne di diverse generazioni vivevano insieme, si aiutavano e consigliavano. Oggi no, siamo sole quando abbiamo un bimbo – e a Roma è anche peggio che a Milano – e ci isoliamo. E invece condividere con altre donne è un punto di forza, di sostegno, di aiuto. Ecco da dove è nata l’idea del Milk Bar, un punto di ritrovo interamente dedicato alla gravidanza e all’allattamento (a Roma è in via di S. Martino ai Monti 34, a Milano in via Mazzini 20, themilkbar.it). All’inizio al Milk Bar venivano solo le straniere, soprattutto mamme scandinave più abituate all’idea di allattare in pubblico, ora cominciano anche le italiane. Hanno capito che questo è un luogo dove scambiare chiacchiere e informazioni: ancora così poche sull’allattamento naturale. Quante volte – è successo anche a me – ho sentito dire: allatta al seno, ma dagli anche un’aggiunta col biberon. Perché il latte artificiale è più pesante da digerire, sazia di più e dunque il bebè avrà meno fame e dormirà meglio. Allattare è una scelta solo personale, ma credo che ogni mamma debba farsi una domanda: se la natura ci ha garantito questa ricchezza unica e insostituibile perché dobbiamo privarne il nostro bimbo? E, soprattutto, perché privarcene anche noi?

Claudia Maffi, creatrice del sito online ecomammaebimbo.com, madre di Andrea, 2 anni

Sono vegana da tre anni e non ho mai avuto problemi di alimentazione, né in gravidanza, né durante l’allattamento. È un errore credere che se si è vegani manchi qualcosa nella dieta, a te e di conseguenza al bimbo. Andrea è nato sanissimo. Pesava quasi 4 chili, un bambinone. L’ho allattato per sei mesi. Ma che fatica! E non perché dico no a carne, uova, pesce e latticini (compensate da legumi e cereali nobili)... Ho fatto fatica perché ho ricevuto poche e vaghe informazioni. Non riuscivo ad attaccarlo, non sapevo come fare e tutti mi dicevano: non hai abbastanza latte, non è buono. Eppure ne avevo tantissimo. Al corso preparto sono tutti pronti a dare consigli: ginecologi, ostetriche... Ma poi? Arrivi a casa dopo tre giorni di degenza all’ospedale con le idee confuse. Andrea succhiava, ma poi vomitava tutto con un getto a fontana. Non sapevo cosa fare: smettere, continuare? Fino a quando non ho scoperto la Lega del Latte, un’associazione internazionale che promuove l’allattamento materno (lllitalia.org). Sono state loro a spiegarmi che il problema non era il mio latte – il latte della mamma è sempre ottimo – ma il riflusso di emissione molto alto che aveva Andrea. In pratica, succhiava troppo avidamente e faticava a digerire. Mi hanno insegnato a usare il tiralatte, ad attaccarlo solo quando il mio flusso si era regolato. Inutile negarlo, però: allattare è davvero faticoso. Anche psicologicamente. Unica nota positiva: è un’ottima dieta, mi ha fatto perdere tutti i 16 chili presi in gravidanza.

Anita Macchi Cassia, architetto mamma di Bianca, 9 anni, Pietro, 6, Filippo, 15 giorni

Allattare Filippo è bellissimo, così come lo è stato per Bianca e Pietro. Quando lo attacco, basta guardarlo per perdermi nella sua espressione sognante; fatico a capire chi rinuncia a un’esperienza simile. Pietro è nato con uno pneumotorace, è stato in incubatrice per 10 giorni: andavo e venivo dall’ospedale, mi tiravo il latte anche di notte, perché non volevo perderlo... Con Filippo è tutto più semplice: è nato in due ore, le infermiere lo hanno lavato, vestito, me lo hanno portato e io l’ho attaccato subito. Certo all’inizio fa male, me ne ero dimenticata: ma se si sopportano quegli spilli dei primi giorni, dopo diventa un’avventura unica. Per evitare la formazione di ragadi uso paracapezzoli d’argento: l’ossido d’argento a contatto con il latte fa da perfetto cicatrizzante. Anni fa li avevo comprati su internet ma ora li vendono anche in farmacia. Novità rispetto al primo parto? I reparti di pediatria sono pieni di cartelli sui benefici dell’allattamento materno e sulle migliori posizioni per farlo (sdraiata a letto, col bimbo in braccio, aiutandosi con gli appositi cuscini avvolgenti) e le ostetriche sono molto più pronte a spiegarti i vantaggi dell’allattamento a richiesta. Per ora sto cercando di allattare Filippo regolarmente ogni 3 ore, ma sono passati solo 15 giorni, è ancora tutto un work in progress. Lui comunque pare gradire, questa settimana è cresciuto 300 grammi.

Graciela Salazar, pr in un'agenzia pubblicitaria, mamma di Teo, 13 anni e dei gemelli Luca e Federico, di 5

Con due è tutto doppio. Che in sintesi vuol dire: 16 allattamenti al giorno! Eppure per un mese l’ho fatto con il mio latte. Non so come. In ospedale mi avevano avvertito: con i gemelli è meglio usare quello artificiale, ma io mi ero incaponita. Sin dall’inizio, durante la settimana in cui sono stati in incubatrice perché erano nati troppo piccoli, mi tiravo il latte e poi lo portavo in ospedale, anche quattro volte al giorno. Una volta a casa, poi, mi sono armata di un quaderno e annotavo tutto: orari, peso, latte, cacche, cambi pannolino. Tutto per due. Alternando le poppate del mio latte a quello artificiale. Poi li passavo a Sergio (mio marito) o alla baby sitter per il ruttino. Raccontata così suona semplice, ma basta sbagliare un passaggio che tutto diventa spaventosamente ingestibile. Mi è capitato di allattare due volte di seguito Federico. Col risultato che entrambi piangevano tantissimo: uno perché aveva fame, l’altro perché aveva le coliche. Ero stremata, con gambe e schiena doloranti. Di quel periodo ricordo i banchetti notturni direttamente a letto: avevo sempre una fame terribile. Mangiavo tantissimo. E la stanchezza era micidiale. Non che dopo siano rose e fiori, anche col biberon i gemelli rimangono due. Di notte sognavo coliche, ruttini, pannolini. E di giorno c’era anche Teo, che aveva solo 8 anni. Non so come ho fatto: che sia questo l’amore materno?

Deborah Papisca, autrice del libro "Di materno avevo solo il latte" (Dalai Editore), mamma di Camilla, 5 anni

Mi sono sentita un’extraterrestre. Devastata. Altro che “mamma sognante” e “rapporto esclusivo”, se solo mi avessero avvertito prima... Non metto in discussione cheil latte materno faccia bene al bebè, e che quindi ha fatto bene anche a Camilla, ma l’atto di offrirle il seno, per altro straripante, mi ha fatto sentire soltanto un grasso/grosso mammifero, non c’era proprio nulla di poetico. Ricordo riti estenuanti fatti di enormi tette al vento sempre gocciolanti, cambi di pannolino, creme antiarrossamento. E in più, niente cioccolato o altri cibi degni di questo nome, perché alterano il sapore del latte. Solo tristi decotti al finocchio, per mantenere la produzione. Per non parlare dei risvegli notturni: mi sentivo un semplice oggetto per nutrire mia figlia, una milk company production, armata di reggiseni stile ponte-levatoio, completamente snaturata dal suo essere donna. Giravo per casa vestita, o meglio semivestita, con lunghe magliette o enormi pigiami aperti, sola, isolata dal resto del mondo e anche un po’ depressa. Un giorno, con quell’abbigliamento, ho aperto la porta a due testimoni di Geova: sono fuggiti davanti alla orrenda versione di me così conciata. Credo che abbiano pensato di trovarsi davanti una scostumata, reduce da una serata orgiastica. Quella specie di orribile incubo è durato tre mesi, poi mi sono venute le ragadi e subito dopo la mastite. Perciò sono andata dal ginecologo e ho detto: basta. Ho preso un farmaco per far andare via il latte e l’ho sostituito con quello artificiale. E finalmente ho riconquistato la mia indipendenza. Soprattutto, ho subito smesso di sentirmi in colpa, giudicata per una scelta che agli occhi del mondo era una vergogna. Dovrebbero avvertirci, noi mamme, su cosa succede “dopo”. Dovrebbero dirlo chiaro e tondo che la maternità non è solo idilliaco amore, ma anche un incredibile fardello di fatiche e difficoltà. Invece in ospedale non ti spiegano quasi nulla, ti viene solo sciorinato un mantra: attaccala, attaccala. A me è mancato l’abc: volevo sapere come farlo, quando farlo, per quanto tempo. E pensare che un’amica che ora vive in Australia ha avuto a domicilio gratuitamente una mother assistance per una settimana, che l’ha persino aiutata a educare il bimbo al sonno. I bambini non arrivano con le istruzioni per l’uso, ed è la ragione per cui ho voluto scriverle, a modo mio.