Sugli scaffali, da una parte un susseguirsi di kit per piccoli scienziati, costruzioni ingegneristiche, accessori per esploratori. Di fronte, ben separato dal corridoio centrale del negozio di giocattoli, un inquietante esercito in rosa: principesse accessoriate, pony glitterati, fatine in tutù con strass. Qui e là, la famigerata gattina senza bocca fa capolino su borsette, trucchi & co. Mentre Barbie circondata da un’aura del suo colore ufficiale, rosa pantone 219, è costretta a lasciar spazio a più spregiudicate nuove arrivate. Nulla che richiami le avventure e la creatività degli scaffali dei maschi. L’effetto R è questo, una dittatura color confetto. Un diorama sconcertante e globale, che una mamma non può fare a meno di notare, più o meno preoccupata.

Peggy Orenstein, giornalista e scrittrice americana, era convinta di poter evitare a sua figlia il principesco pink grazie al suo background femminista (ma ha segretamente sperato in un maschio, durante la gravidanza). Crescere Daisy è stato un percorso tortuoso, raccontato con humor nel libro Cinderella ate my daughter, (Cenerentola ha divorato mia figlia, in Italia a febbraio, ed. Epc, collana Ghena). Peggy ha intervistato psicologi, insegnanti, esperti di marketing, mamme e bambine, alla ricerca di risposte (e di armi con cui combattere): «A una certa età le bambine sentono un gran bisogno di affermare che sono femmine. Pensano che essere "una mamma" o "un papà" dipenda dalla lunghezza dei capelli, dai vestiti, dalle attività che si fanno. Quando ero piccola ovviamente esistevano già le bambole, come i ferri da stiro giocattolo e altre cose "da donna". La differenza è che oggi sono tutti di un rosa estremo luccicante. E che questo colore viene associato a una concezione di femminilità ben precisa, fatta di trucchi, lustrini e molta apparenza».

L’opinione di Peggy è che il “pink factor” sia determinante per vendere giocattoli: «Non voglio dire che esista una cospirazione mondiale per impossessarsi delle menti delle bambine, perché di fatto le aziende rispondono a una domanda del mercato. Certo è che uno dei modi più facili per segmentare la clientela, e quindi vendere a due invece che a uno, è di amplificare le differenze tra maschi e femmine, se non addirittura inventarle».

Il rosa non ha, ovviamente, nulla di male in sé: è stato il colore di un periodo artistico di Picasso, della mitica cadillac di Elvis. Non esiste, in realtà, giustificazione storica per questa apartheid cromatica tra maschi e femmine. Le prime principesse Disney, come Biancaneve o Cenerentola, nemmeno indossavano questo colore. Anzi, un tempo le bambine erano associate all’azzurro virginale della Madonna.

La vera propaganda del rosa è iniziata negli anni 80, è proseguita circa dieci anni fa con il lancio della linea targata Principesse Disney, e oggi è al culmine. «Ma le cose oggi sono un po' cambiate», spiega Barbara Mapelli, professoressa di pedagogia di genere all'Università Bicocca diMilano. «Il fatto è che il rosa contemporaneo non è più quello di trent’anni fa. È aggressivo, plastificato, carico di glitter e di lustrini. Comunica immagini di seduttività femminile precoce, che di riflesso spingono anche i maschi verso inevitabili stereotipi di ruolo».

Costrette nell'ossessiva monocromia, bimbe e ragazzine rischiano di perdersi tutte le altre sfumature dell'emotività, anche perché agli estremi di questo arcobaleno tutto zucchero, ci sono da una parte principessine in attesa del Gran Ballo (e del solito Principe Azzurro) e dall'altro bamboline ipertruccate, chiaramente affette da shopping compulsivo. «In Italia, poi», continua Mapelli, «i genitori non hanno ancora valutato correttamente l’influenza di queste proiezioni indotte e distorte e in parte si sentono in dovere di soddisfare i desideri consumistici delle figlie, per non farle sentire diverse dalle amiche. Difficile però che associno la “sottocultura del rosa” a determinati comportamenti, per cui rimangono piuttosto spiazzati nel ritrovarsi poi ragazzine con comportamenti da Lolita».

Superata la primissima infanzia, l'identificazione in “principesse e fatine” sembra persino il male minore. Dalla preadolescenza incombe, infatti, il fenomeno delle popstar teen, stile Hannah Montana, simbolo di una femminilità liberata, ma in realtà pilotata dalle leggi del massmarket. Da noi c’è solo qualche blog isolato di mamme che si confrontano su questo tema, ma in Inghilterra, due genitrici consapevoli del problema, le sorelle Abi ed Emma Moore, hanno fondato l’associazione Pink Stinks (il rosa puzza, pinkstinks.co.uk): «Abbiamo scelto questo colore come simbolo della marea di superficialità che gravita attorno alle nostre bambine. La prima iniziativa lanciata è stata contro il più grande rivenditore di giocattoli della Gran Bretagna. E abbiamo scelto “Io non sono una principessa” come slogan». Nel loro sito indicano donne e ragazze reali e diverse fra loro che possano essere un esempio per le bambine, pescando ovunque, dalla scienza all'arte, allo sport. Il supporto è arrivato da tutti, istituzioni e genitori. Molti insegnanti usano addirittura i loro materiali in classe. E fanno sapere: «Per favore, scriva che ci hanno contattato anche moltissime donne italiane».

Obbiettivo Pink World

Dall'altra parte del mondo l'artista e fotografa coreana JeongMee Yoon, porta avanti da anni (ha iniziato nel 2006) il Pink and Blue Project, in cui immortala bambini e bambine in camere monocolore, quasi sommersi da un quantità di oggetti rosa o azzurri. «Ho voluto approfondire questa dicotomia quando mi sono accorta che mia figlia a 5 anni voleva prepotentemente vestirsi solo di rosa. Quando ho realizzato che non si trattava solamente di lei, ho cominciato a fotografare bambine di ogni parte del mondo, con la stessa mania. Per tutte, il rosa rappresenta la femminilità e va di pari passo con il desiderio di sentirsi al centro della scena». Con il risultato che le bambine «sembrano bamboline loro stesse», racconta la fotografa (jeongmeeyoon.com).