Sì alle armi giocattolo, oppure no? Ecco una questione circondata da filo spinato, che oggi punge non poche coscienze ridisegnate dalla cronaca quotidiana di atti terroristici, di guerre, di follie omicide compiute da adolescenti. Siamo cattivi maestri nel porre in mano ai bambini - bambine incluse - pistole e fucili solo perché hanno la smania di giocare a combattere? O facciamo bene perché in fondo le armi giocattolo canalizzano l’aggressività?

Umberto Eco sosteneva nella Lettera a mio figlio (Diario Minimo) che il fucile è un ottimo regalo, perché consente di spiegare a un bambino che l’arma serve non per uccidere gli indiani, ma per combattere i trafficanti di armi e chi li vuole distruggere con l’alcol. In una società dai toni violenti la questione non è di poco conto. E una riflessione a più voci può aiutare a orientarsi.

Decisamente schierata per il “no guns” è Maria Rita Parsi, psicoterapeuta, scrittrice e membro all’Onu di un comitato per i diritti dei piccoli. «Non regalate pistole e fucili! È vero che i bambini hanno diritto al gioco, ma io aggiungerei “gioco educativo” affinché conoscano, sperimentino, si incontrino. Sono lontani i tempi in cui le finte armi erano propedeutiche al servizio militare a difesa della Patria. Certo, l’arma giocattolo consente di elaborare l’angoscia del pensiero “guerra” o “terrorismo” o anche la paura di conflitti interni alla famiglia: io sparo a te e tu spari a me, è un modo di scaricare la tensione, la rabbia. Ma è anche il mezzo peggiore, considerando quanto siano importanti i giocattoli che diamo ai bambini nei primi anni di vita. C’è un mondo di divertimenti, travestimenti, di attività artistiche, sportive e competitive a cui attingere che consentono di elaborare le paure in altro modo. È tempo di educare alla pace».

Più possibilista il parere di Guglielmo Morosini, giocattolaio a Milano dal 1935, che dal suo osservatorio privilegiato commenta: «Potrà stupire, ma un bambino a due anni è già attirato dalle spade, vuole essere il cavaliere che combatte draghi e maghi cattivi. Dai 3 anni ai 5, complici film e cartoon, vuole fucili da cowboy, poi l’interesse per le armi cala fisiologicamente, eccezion fatta per fucili giocattolo come Nerf o BoomCo, che sparano proiettili di gommapiuma inoffensivi, un must tra i 6 e i 12 anni. Sono convinto che l’arma giocattolo non sia pedagogicamente dannosa, anzi è un bene che i bambini liberino l’aggressività innata: esorcizzarla e non demonizzarla fa sì che non diventi violenza pura da adolescenti e adulti. L’esperienza mi dice che il bambino a cui è stato proibito di giocare con la spada di D’Artagnan diventa spesso il dodicenne che in negozio cerca le armi ad aria compressa, quella con i pallini che fanno davvero male».

Secondo Michela Marzano, filosofa, scrittrice e deputata alla Camera, la questione è un’altra: «Anch’io da piccola sparavo, eccome, ma sono cresciuta con l’idea che niente è più pericoloso delle armi. Il problema non è l’arma giocattolo, ma le parole con cui l’adulto accompagna il gioco, un’opportunità per trasmettere valori positivi, buone maniere, regole di comportamento. L’aggressività naturale dei bambini va accompagnata dalla consapevolezza che un’azione violenta ha conseguenze gravi, come la sofferenza dell’altro. Va spiegato il rapporto di causa-effetto, cosa può succedere con un’arma vera. Freud diceva che la compassione non è innata, va insegnata. E le armi migliori che abbiamo, in realtà, sono l’intelligenza e il dialogo».