Mi fermo piano piano, e abbasso il finestrino. Pioviggina, è quasi buio, e lì sul marciapiede c’è solo un uomo: «Scusi, per Milano vado bene?». Lui mi guarda come fossi un serial killer: «Questa È Milano». Mai nessuno mi ha zittito con tanta protervia. Sto tornando dall’Oltrepò Pavese, per evitare il traffico ho imboccato una strada strana e chissà dove sono finita. Pavia, Piacenza, Timbuktu...? Aiuto!

Altra scena, altra corsa. Ho lasciato mio figlio al corso di vela all’isola d’Elba, ho preso il traghetto per Piombino, e ora, otto di sera circa, sto guidando verso Milano, ispirata dalla musica perfetta. Forse troppo, ispirata. Forse mi sono distratta e il tempo è volato o s’è fermato o insomma la freccia per Grosseto non dovrebbe essere passata?, e lo svincolo dell’autostrada per Livorno non dovrebbe essere già qui? Di piazzuole dove sostare per raccapezzarmi neanche l’ombra, mi attacco al volante per padroneggiare il panico. Freno, vado avanti, rifreno, meno male che dietro non c’è nessuno, accelero. Poi lo vedo, quel pazzesco cartello stradale ROMA/NAPOLI. Col senso dell’orientamento di una talpa ubriaca, ho fatto chilometri e chilometri nella direzione contraria. Amen. Al netto delle infrazioni, delle auto pericolosamente fermate in cerca di solidarietà, di quella spaventosa inversione a U e dell’ora assurda in cui sono arrivata a casa, una cosa l’ho capita: mai più mi troverò in una simile situazione.

La tecnologia! La tecnologia! Eccoci qui, quattro indomiti fan sull’autostrada per Lucca dove questa sera c’è un concerto imperdibile. E che sicurezza, questo neonato navigatore che ci detta la rotta. Certo, ha la voce dell’infermiera pazza di certi film di spionaggio mal doppiati, però. Però un tubo: abbiamo passato d’un soffio uno svincolo quando lei con tono da Gestapo intima di «sfoltare a destra». Mai fatto prima, mai lo rifarò: frenata, retromarcia, e via giù verso il casello, fra urla e semisvenimenti a manovra ultimata.

La tecnologia 2.0! La tecnologia 2.0! Sono a Roma, dove non fosse per Google Maps nelle cuffiette avrei vagato quattro anni in motorino intorno a Termini. E invece, in giro a destra e a manca che è un piacere. Però. Però quanto ci hanno messo le mappe del cellulare a capire che i Fori erano chiusi al traffico (e le multe non le spediscono nella Silicon Valley)? E quella volta che mi hanno fatto fare 20 giri intorno a piazza Esquilino, e io che invece di capire che s’erano imballate speravo si aprisse una magica botola spazio-temporale? E la notte che, a piedi, ho seguito il pallino di me stessa sullo schermo e ancora un po’ e mi trovavo alla foce del Tevere?

Orizzontarmi non è il mio forte, s’è intuito. Ma sono mancina corretta, non sono stata negli scout, sono tonta... Però. Però quanto tempo si perde per colpa di Internet?, ed è un perdersi vuoto, ansiogeno. E allora, persi per persi, a volte è meglio fermarsi e chiedere la strada a qualcuno, o affidarsi a quel che si sa e si vuole ritrovare, magari facendo un giro lunghissimo. Oppure, meraviglia!, è ancora meglio imboccare vie inesplorate (di Seattle, dell’amore, di parole che ti guidano dove da sola non saresti mai andata) seguendo le dritte di Charles D’Ambrosio, scrittore americano di cui un paio d’anni fa minimum fax ha pubblicato un memorabile libro di racconti, Perdersi. Altro che Google Maps.