L’articolo del Washington Post è esilarante. L’autrice, Alexandra Petri, affronta l’eterno dilemma sulla giusta temperatura in ufficio ma lo fa in un modo in cui, ridendo, ci riconosciamo tutte. Dove ironizza sull’impossibilità di capire qual è la temperatura in quel momento perché il mercurio si è congelato nel termometro. Ha le visioni di tauntaun morti, gli animali immaginari che vivono nelle nevi di Guerre Stellari, e di pinguini che stanno per deporre le uova. Si spiega la presenza di colleghe coperte da strati di indumenti come una reazione all’era #metoo. E, okay, non si capisce bene chi sia il colpevole di tutto questo ma si intuisce, ovvero il suo capo che mantiene la temperatura a livelli da Siberia – chissà perché – nonostante un recente studio, pubblicato sulla rivista PLOS One, abbia dimostrato che se è logico che nei posti di lavoro la temperatura debba essere adeguata, è anche vero che le donne producono molto di più se non è troppo bassa.

La ricerca, realizzata a Berlino da Tom Chang e Agne Kajackaite su 543 studenti universitari, ha testato le diverse performance degli studenti a temperatura che andavano dai 16 ai 32 gradi. Come riassume un altro articolo su Atlantic, i partecipanti dovevano risolvere problemi logici. Quando la stanza era calda, erano le donne a rispondere meglio ai test. Già solo aumentare di 1° la temperatura della stanza corrispondeva a un aumento di circa il 2% di risposte corrette da parte di una donna. Gli uomini, invece, hanno ottenuto performance migliori a temperature più fresche, ma l’abbassamento delle prestazioni quando la temperatura si è alzata non è stata così evidente come il miglioramento opposto delle donne.

In Italia la temperatura negli uffici è regolata dalla legge (e dalla Costituzione, che impone ambienti di lavoro confortevoli) e monitorata dall'Inail, e deve rimanere costante fra i 18 e i 24 gradi. Ovviamente, come per l’autrice dell’articolo del Washington Post, capita a molti il capoufficio che abbassa le temperature, in genere è un uomo (e ora sappiamo perché, anche se si favoleggia molto sul gelo negli studi televisivi di Barbara D’Urso, voluto da lei) e che ci costringe a lavorare con i guanti senza dita. C’è un unico modo per non finire come la giornalista del Washington Post, a festeggiare quando una delle sue colleghe viene ritrovata viva dopo lo scioglimento di un blocco della barriera di ghiaccio (sì, pensiamo ancora al Trono di Spade e sì, si scherza ancora): stampare una copia della ricerca di Tom Chang e Agne Kajackaite e farla avere in modo anonimo al capo. Di fronte alla prospettiva di un aumento di produttività (e di premi produzione per loro) cedono sempre tutti.