Se tra le ultime opere dell’uomo ancora riconoscibili, volando oltre la stratosfera, ci sono le Piramidi della piana di Giza, quella del Cocoricò è una delle prime costruzioni aliene che si vedono sulle colline di Riccione, arrivando dalla A14.

Come l’omologa del Louvre, terminata da Ieoh Ming Pei solo qualche mese prima di quella romagnola, anche la Piramide del Cocoricò è un simbolo di interconnessione tra quadrato e triangolo, base e vertice, terra e cielo, notte e mattino, subwoofer e tweeter, moltitudine e individuo: Riviera adriatica e Sistema solare. Così perfetta, nella sua punta che svetta solitaria da quelli che — senza luci, nel silenzio — di giorno sembrano semplici stanzoni industriali, che non sai se credere più a chi racconta che l’hanno eretta leggendarie maestranze sammarinesi, nel 1989, o alla suggestione dello zampino di civiltà precedenti alla nostra, o perlomeno a quella riccionese.

Raro monumento piramidale non funebre,

per 30 anni il Cocoricò, la più celebre disco d’Italia, è stata un mausoleo in cui chiudersi da vivi

Dove il dj-faraone, invece che essere seppellito con gli oggetti simbolo del suo benessere terreno — tra cui corredi di piatti, cuffie e pasticche — veniva sommerso di richieste di pezzi e di high five del suo popolo, essendo egli sì divino, ma tangibile, a suo agio in mezzo alle gioie e ai dolori degli uomini; di estrazione greco-romana, dunque, anche se dall’accento sembrava più delle parti di Misano Adriatico.

Purtroppo, dal 13 giugno 2019, il metronomo progressivo del Cocoricò ha smesso di pulsare.

Sulla carta, perché il locale era fortemente indebitato con lo Stato e Gabry Ponte.

In verità, perché il suo tempo (principalmente 4/4) era finito da un pezzo. In un mondo che tende a celebrare la musica ascoltata individualmente e attraverso l’ausilio di cuffie noise cancelling (quegli stetoscopi puntati verso l’anima, ad avercene una), è particolarmente triste dover dare l'addio a un luogo che riusciva a produrre chiasso meglio di tutti gli altri. E che era in grado di mostrarci, ogni serata, quanto illusoria fosse l'idea di un mondo silenziato o anche solo ordinato, mentre intorno è il caos strutturale — un po’ come quando si disinfetta il braccio di un condannato all’iniezione letale o si insiste a differenziare mentre sullo sfondo dei bidoncini colorati si alzano le nubi nere delle discariche che bruciano.

Il Cocoricò degli anni ’90 non era semplicemente una discoteca, ma un’associazione a delinquere dalla realtà. La provincia di Rimini diventava capitale della techno e ci si divertiva come se non ci potesse essere una crisi dei primi 2000. Quasi tutti i grandi club italiani sono caratterizzati dagli scontri tra utenti di civiltà limitrofe: chiunque sia stato al Guendalina di Santa Cesarea Terme all’apice del suo successo non può scordare le lotte nei parcheggi tra salentini e baresi. Al Cocoricò, invece, la sfida era sempre tra sé e il proprio corpo, in una strana declinazione del tema — classico — del ritorno alla natura che avveniva però grazie alla musica elettronica e altri ausili sintetici. Non si guardava in faccia alla politica, ai soldi, al genere, alle preferenze in fatto di droghe e varianti della trance, di certo non alle inclinazioni in fatto di look.

Ciascuno era libero di essere il profilo Instagram che, vent’anni dopo, avrebbe aperto

Si parlavano tutti i dialetti d’Italia e anche del mondo perché, soprattutto a certi volumi, non c’è miglior esperantista di chi non può sentire una parola di quello che gli gridiamo. I lettini degli stabilimenti balneari erano l’unico Airbnb di cui si sentisse la necessità. Il pompare della trance era l’inno nazionale di un popolo che voleva restare sveglio. Bevevi questo, fumavi quest’altro e, almeno fino al drop successivo, ti facevi derviscio, trottola, trapano. Era una Babele ottimistica, anche demograficamente in ascesa, giacché non basterebbe un altro Cocoricò per ospitare i millennial concepiti durante una nottata riccionese dell’epoca d’oro.

instagramView full post on Instagram

La vita all’interno del locale costituiva una complessa liturgia, con il suo arredo diversamente sacro, le processioni con Gigi D’Agostino al posto del Santo, i suoi sacrifici disumani. Il vocalist occupava il posto apicale del clero officiante, al servizio delle divinità alla consolle, trinitarie come nel cattolicesimo, ma con qualche differenza dottrinaria sostanziale: i dj Ricci, Cirillo, Saccoman.

Il “Cocco” era concepito come un’enciclopedia di piste. Oltre alla Piramide c’era Titilla, dedicata alla house, con selezione all’ingresso. Questa era più che altro un divertissement per il purista della techno, che vi si avventurava, in canotta, per una prova di apnea al contrario. I suoi polmoni-branchie (fra le sigarette e il sudore della pista principale), infatti, non erano più abituati all’aria non viziata; e vi restava giocando a fare a meno del suo evidente vantaggio evolutivo, fino a che non veniva, puntualmente, buttato fuori. Essere menati dalla security del Cocoricò era uno status symbol più importante di qualunque capo d’abbigliamento o cronografo da polso.

La pista Ciao Sex, all’aperto, era il regno di performance ambulanti come Ryoji Ikeda o il Principe Maurice, i cui soli outfit, per molti, giustificavano il prezzo del biglietto. Non era impossibile scambiarvi un proprio compagno delle medie per Lucio Dalla, e viceversa. La sala Strix, embeddata nel bagno delle donne, era una specie di speakeasy, di cui tutti conoscevano la parole d’ordine, ma nessuno la safeword. La sala Morphine, consacrata all’ambient, era la più rilassante, perfetta per una pausa tra un habitat e l’altro.

Vigeva una grande apertura mentale. Le genti di nero vestite che vivevano sottocassa e che sillabavano i testi della progressive, neanche fossero a un concerto di Venditti, erano guardate con rispetto quasi da tutti, perfino da chi rimorchiava, tranne che dagli autori delle sparute liriche, a cui non andava a genio che se ne potessero disvelare le libertà nell’applicazione del lessico e della grammatica inglese.

Hand, pinterest
Getty Images

I fumogeni erano talmente persistenti che, retrospettivamente, l’intera discoteca sembrava svapare, come se vederci fosse un optional riservato alle intermittenze delle strobo e alle epifanie mattutine, con la luce del sole che cominciava a trapelare dai triangoli non sempre pulitissimi, ma comunque abbastanza trasparenti da mostrarci infine con chi o con cosa avessimo ballato tutta la notte.

Il 15 d’agosto era talmente pieno da sudare anche da fermi e, allora, tanto valeva muoversi. Per fortuna ballare la techno è una di quelle attività in cui lo scoordinamento psicomotorio non è necessario, ma aiuta. La musica era così alta e ritmata che non erano pochi quelli che sfidavano la propria resistenza alle robe forti, avendo già sperimentato ogni altra cosa, cercando lo sballo di una notte senza droghe, sentendo tutto, vedendo tutto col filtro nuovo della lucidità e, proprio per questo, finendo per sballarsi più che mai.

Per generazioni di liceali il vero esame di maturità è stato resistere al Cocoricò

, a testa bassa, in piedi fino al mattino, sentendo il proprio petto trasformarsi in una cassa senza fili prima del Bluetooth, ostentando — come oggi si ostenta un’automobile — il coraggio di essere felici per così poco. Gongolavano praticamente tutti, tranne i rari conducenti designati, che attendevano a colpi di Red Bull che gli amici acconsentissero finalmente a tornare a casa, spesso a centinaia di chilometri di distanza; o il babbo che puntava la sveglia per andare a riprendere la figlia che mai e poi mai avrebbe dormito a casa dell’amica di Riccione, che del resto nessuna aveva davvero.

Questo fu il Cocco, nella realtà dei fatti degli anni ’90 e nella nostalgia del tentativo di riviverli nei 2000. Come tutti i revival, fu un tentativo maldestro, un po’ come infilare una chiave nel portone di una ex fidanzata, dieci anni dopo che ci ha dato il benservito. Mancherà più di ogni altra cosa essere tutti contemporaneamente in un solo posto a fare più o meno la stessa cosa, più o meno nello stesso modo: liberamente.

Non chiude dunque solo il Cocoricò, dopo trent’anni. Ha chiuso già da prima delle sentenze dei tribunali un’idea di divertimento fisico hic et nunc, la serata come autoscontro tra corpi e menti, spesso all’interno di una stessa persona, soppiantata da nuovi modelli di club e di vita che stanno alle relazioni interpersonali e al ballare come le armi chimiche stanno alle strategie belliche e i bitcoin stanno all’economia reale.

Sand, pinterest
Getty Images

Chissà quale sarà il destino di quella piramide vuota. Se sarà ridisegnata da subito, magari per ospitare mostre o performance, come sogna la storica dell’arte contemporanea dell’Università di Bologna Fabiola Naldi. Oppure se sarà sigillata e lasciata intatta per il beneficio degli archeologi della posterità, attendendo anch’essa migliaia di anni prima di essere riaperta e decifrata, a partire dalle misteriose iscrizioni parietali nei bagni.

Chissà se c’è già, tra gli affezionati del Cocoricò, un Fellini strafatto pronto a raccontare il Cocoricò come se fosse stato il Grand Hotel di fine ‘900. Ora che tutto è diffuso, tutto è liquido, chissà se arriverà di nuovo qualcuno che abbia l’ardire di stabilire un’altra volta: ecco, questi sono i confini del nostro mondo, questo è il nostro cielo in una pista. Adesso remixatelo.