«Una mattina, all’alba, stavo surfando sotto il Golden Gate Bridge e c’era un gruppo di turisti che scattava foto dagli scogli. La giornata iniziava nel migliore dei modi, ma all’improvviso i surfisti che erano in acqua con me hanno iniziato a insultarmi. Pensavano mi fossi portata dietro i fotografi, mi urlavano “Vattene, qui possono stare solo i maschi”. Mi dicevano che, tanto, non mi avrebbero più vista da quelle parti, perché per loro ero già morta. Ero sconvolta, gli ho risposto “Ok, adesso vado a prendere ogni singola onda e ve la tiro in faccia”, poi però sono uscita dall’acqua e ho chiamato mia mamma piangendo». A parlare è Bianca Valenti, 33 anni, californiana di San Francisco, tra le migliori professioniste di big waves del mondo, la versione estrema del surf, quando il vento crea onde alte come quattro piani di una casa. Basta alzare la testa per immaginarsi gli spaventosi muri di acqua che affronta. Bianca è nata negli States, ma ha origini italiane. Per pagarsi la sua passione lavora nel ristorante del papà, seleziona vini, un’arte ereditata da suo nonno, Jean Valenti, che nel 1965 ha fondato l’Associazione italiana sommelier. Ai tempi del racconto era un’adolescente e aveva un sogno, diventare come Kelly Slater, il campione dei campioni di cui aveva il poster in camera, ma le intimidazioni si ripetevano, dentro e fuori dall'acqua «da bambina quando vedevo qualcuno surfare, non mi chiedevo se sulla tavola ci fosse un maschio o una femmina, per me c'era solo una persona che si stava divertendo. Poi ho capito che non sarei mai diventata Kelly Slater, certo ero brava, ma ero una ragazza, quindi davanti a me c’era una salita».

La surfista Bianca Valenti a Ocean Beach, San Franciscopinterest
Sachi Cunningham
Bianca Valenti, tra le sei fondatrici del Committee for Equity in Women Surfing (il Comitato per l’uguaglianza nel surf femminile) si allena a Ocean Beach, San Francisco. In maggio è stata nominata atleta dell’anno dalla Save The Wave Coalition.

Per le donne non c’era spazio sulle riviste di surf, a meno che non sbattessero le natiche in faccia al fotografo di turno, non c’era storia nemmeno in tv e nei contest più prestigiosi delle onde giganti, per definizione quelle sopra i quattro metri, a cui la World Surf League, l’organizzazione più attiva e radicata, invitava solo gli uomini. «È assurdo», dice Valenti, «lo sport è nato per ricordarci che noi esseri umani possiamo essere meravigliosi, anche se durante le gare è molto facile dimenticarlo. Sono le donne, con la loro leggerezza di cuore, che aiutano a tenerlo in mente. Siamo capaci di tutto. Possiamo fare figli, cosa c’è di più rivoluzionario?». Valenti non riusciva a farsene una ragione, si allenava tutti i giorni, fin da bambina. Aveva sette anni e impugnava una boogie board, la più piccina tra le tavole, quando cavalcava la sua prima onda alla Doheny State Beach di Dana Point, una delle spiagge cantate dai Beach Boys in Surfin’ Usa.

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Frans Lanting
Le onde di Mavericks, a sud di San Francisco, sono tra le più alte e potenti del mondo. A cavallo dei suoi giganti d’acqua si sfidano le surfiste e i surfisti più impavidi.

Poi un giorno conosce Keala Kennelly, Paige Alms e Andrea Moller in una data epocale per il surf femminile, gareggiavano tutte e quattro al Nelscott Reef Big Wave Classic del 2014 in Oregon. «Era in assoluto il primo contest di onde giganti in cui eravamo invitate anche noi donne», dice, «io vinsi, ma andammo tutte molto bene per essere il nostro debutto, così ci siamo guardate in faccia e ci siamo dette, ma perché diavolo non possiamo partecipare anche a tutte le altre gare del mondo?». Proprio in quei giorni la surfista e regista Dayla Soul iniziava a girare il film che sarebbe entrato nella storia dell’emancipazione sulla tavola e che scena dopo scena ribalta lo stereotipo femminile. It ain’t pretty, che in italiano suona come “non è carino”, si apre con le surfiste che raccontano i loro infortuni più assurdi e si sganasciano dalle risate: ossa rotte, gambe fuori uso, onde che soffocano.
Dopo quella gara leggendaria Alms, Kennelly, Moller e Valenti decidono di creare un’associazione: partecipare ai contest doveva essere un diritto di tutti e non un sogno attaccato al chiodo. Nel 2016, fondano il Committee for Equity in Women’s Surfing (Comitato per l’uguaglianza nel surf femminile). «Lo abbiamo fatto per noi», dice Valenti, «ma soprattutto per chi sta iniziando adesso, d’ora in poi le bambine non dovranno sentire la rabbia che ho provato io quando ho iniziato».

La surfista di onde giganti Bianca Valentipinterest
Sachi Cunningham
Bianca Valenti plana sulle onde gelide del Pacifico, a Ocean Beach.

Sole che scotta, cielo blu e una spiaggia lunghissima. Se lo immaginiamo così, siamo molto lontani dallo scenario di Ocean Beach, a San Francisco, quello delle acque gelide in cui si allena Bianca Valenti, un luogo leggendario, gremito di giovani già negli anni Sessanta. Le surfiste qui sono ninja che si lanciano in acqua remando a braccia più forte che possono, con una muta nera lunga fino alle caviglie, cappuccio e stivaletti, fino a quando l’onda le porta su. Altro che bagnine di Baywatch. «Amo il suono delle onde giganti, è come una bomba che esplode e ti scarica addosso la sua energia», mi racconta Valenti quando le chiedo che sensazione si provi, «sei seduto, guardi all’orizzonte, poi l’onda arriva e ha talmente tanta potenza che potrebbe illuminare tutta l’Italia. Per affrontarla devi avere la calma di un monaco buddista, controllare il respiro, noi lo chiamiamo “One million percent commitment”, devi essere sul pezzo all’un milione per cento, se esiti è finita». Quando invece non è un big day, si dice così quando non ci sono le onde giganti, Valenti allena la resistenza, fisica e mentale. «In palestra mi ammazzo di esercizi per simulare la scomodità che provo quando sono nella pancia dell’onda e poi immagino di entrarci», dice, «anche solo pensare di prenderla mi dà il potere di farlo. Mi capita anche nella vita, immagino solo quello che voglio che succeda, e funziona».

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Cavan Images
A Mavericks, San Francisco, le onde sono montagne d'acqua che arrivano fino a venti metri e più.

Il luogo del cuore. Se c’era un posto che come nessun altro poteva dare il via alla tempesta perfetta delle surfiste, era Mavericks, poco sotto San Francisco. Perché è lì che dal 1999 si tiene il contest più atteso, quello dei campionissimi che, al suo esordio, si chiamava Men Who Ride Mountains. Non certo un nome a caso, perché erano davvero solo “uomini” quelli che potevano avere l’ambito permesso di “cavalcare le montagne” di acqua. Ovvero, onde alte venti metri e più, di una violenza tale che si possono registrare sulla scala Richter. Alms, Kennelly, Moller e Valenti chiedevano che fossero invitate anche le donne. Perché l’oceano non doveva essere di tutti? Su questo punto iniziano a fare pressing sulle agenzie di Stato che regolano l’accesso al suolo pubblico, la California Coastal Commission e la State Lands Commission. Spinte dalle onde lunghe le quattro surfiste arrivano fino alle aule dei tribunali locali, che per la prima volta da sempre si riempiono di occhiali a specchio e cappelli con la visiera piatta. Le spalleggiano due storiche fondatrici del Committee, l’avvocata Karen Tynan e Sabrina Brennan, attivista e commissario del porto nella contea di San Mateo, dove si tiene il contest. «Tutti paghiamo le tasse per le strade, i parchi, le spiagge», dice Valenti, «e allora perché solo i maschi potevano mettere piede nell’oceano?». Hanno già contratti stellari, e quando si allenano gli uomini possono permettersi le moto d’acqua che li trascinano al largo dove ci sono le onde più pericolose (in gergo si dice tow-in surf- ing), nei casi in cui non si possa arrivare a braccia (in gergo paddle out) e possono pagare i voli per competere in capo al mondo.
Le big waves dipendono dal meteo e le date sono annunciate pochi giorni prima.

La surfista Keala Kennellypinterest
Sachi Cunningham
La campionessa del mondo Keala Kennelly a Puerto Escondido, in Messico. Il suo nome brilla sulla Surfing Walk of Fame di Huntington beach, nel sud della California, l’equivalente acquatica della nota via dedicata alle stelle del cinema.

Ci sono molti modi di affrontare la disparità. Keala Kennelly sfida la mancanza di ingaggi con l’energia selvaggia di una rockstar sul palco. Ha 40 anni e ha appena vinto la coppa del mondo femminile di onde giganti. Oltre ad avere inanellato una serie infinita di trofei facendo barrelling, ovvero planare veloce all’interno del tunnel di acqua che si crea nel ventre dell’onda. «Quando sei lì dentro il tempo rallenta, la vista e il tatto si amplificano, senti ogni singola goccia di acqua», dice, «continui a passare dall’eccitazione alla paura». Non è un caso che sia una celebrità, la prima volta che ha surfato era così piccola che non la ricorda, era in mezzo alle onde cullata dalle braccia di suo papà. Eppure KK, come la chiamano le colleghe, non riesce a sbarcare il lunario: «Sono la prima del mondo ma non ho sponsor, li ho persi quando mi sono dichiarata gay e anche ora mi mantengo facendo la dj e l’attrice», mi racconta da Kauai, alle Hawaii. Anche Paige Alms, 31 anni, canadese di base a Maui, non ha mai mollato. Nemmeno quella volta che nel 2016 è stata la prima campionessa di onde giganti sul reef di Pe’ahi, uno dei più impegnativi. Lei ha vinto 15 mila dollari, il campione maschile 25 mila. Nel 2017 stessa solfa, 40% in meno.

La surfista Andrea Mollerpinterest
Sachi Cunningham
Andrea Moller sulla sua tavola a Hoopika, Maui. È appena entrata nel Guinness dei primati delle onde giganti.


La paura di perdere gli sponsor è tale che molte surfiste affermate, quando le ha chiamate Valenti per entrare a far parte del comitato, «hanno detto no», mi racconta Andrea Moller, 39 anni, brasiliana di base alle Hawaii. Lei ha una figlia di 15 anni e lavora come paramedico, full time, in ambulanza. Questo non le ha impedito di entrare, il 2 maggio, nel Guinness dei primati per il gigante d’acqua cavalcato nel 2016. «Ero appena tornata dal turno di notte», racconta, «e le onde erano squared, “quadrate” come muraglie. Quando è arrivata mi sono detta, riuscirò a sopravvivere?».

Ce ne sono volute di battaglie politiche e legali, ma in meno di tre anni le surfiste hanno strappato non solo l’accesso al contest di Mavericks, hanno ottenuto l’equal pay, lo stesso premio in denaro dei colleghi maschi, in tutte le gare della World Surf League. Una svolta se pensiamo alla popolarità che raggiungerà il surf l’anno prossimo, quando per la prima volta sarà disciplina olimpica a Tokyo. La battaglia delle surfiste e di tutto il Committee for equity in women surfing bucherà gli schermi con il docufilm SheChange. La fotografa subacquea, giornalista e regista Sachi Cunningham lo sta finanziando in crowd­funding sul sito shechangethefilm.com. Anche se la strada è ancora lunga e tempestata di bikini, Bianca Valenti non si arrende e ora punta «alla parità dei compensi in tutti gli sport», dice, «quando tutto sarà uguale si vedrà di cosa siamo capaci, perché abbiamo rotto un soffitto di cristallo, ma ce ne sono tanti altri, siamo come in una cattedrale», dice, «ed è bello che da quando abbiamo ottenuto l’equal pay gli uomini ci sostengano molto di più». Perché la realtà supera i sogni e nella vita può capitare che se un gruppo di donne si batte per i diritti, ad acquistare fiducia in se stessi siano anche gli uomini.