Il kit anti stupro è inutile. E potremmo chiuderla qui. Perché il prontuario casalingo intitolato al #MeToo, che per correttezza dovrebbe essere chiamato kit-post-stupro (francamente creepy come definizione) dato che si utilizza solo dopo aver subito violenza sessuale, non funziona. Peggio, potrebbe persino rovinare quelle che sono le evidenti prove di una molestia e di un assalto subito, visto che non si può garantire il corretto uso in situazioni delicate. Madison Campbell, fondatrice della start up di Brooklyn MeToo che ha messo a punto i vari tamponi e sacchettini di plastica per conservare eventuali residui organici specifici, è profondamente orgogliosa della sua creazione e ha promesso di difenderlo sempre, nonostante le evidenti falle. Evidenziate da alcune critiche puntuali e documentate, che mettono le apparenti buone intenzioni (di marketing?) di fronte all’ineluttabilità della Legge.

Le prime incongruenze sul kit anti stupro fai-da-te sono state evidenziate dalla procuratrice generale dello stato del Michigan Dana Nessel, che ha sottolineato i rischi connessi al fai-da-te in momenti di fragilità mentale e fisica, puntando il dito contro la fittizia buona fede dell’azienda. Che in realtà, sostiene la giudice, fa leva su paure reali: quando le statistiche di RAINN (Rape, Abuse & Incest National Network, l’organizzazione che lavora con il dipartimento della Difesa americano per il sostegno a chi ha subito violenza) segnalano che ogni 92 secondi una persona è vittima di violenze sessuali, il pericolo esiste sul serio. Ma da qui a pensare di tutelarsi con un kit fai-da-te per inchiodare un molestatore, è una faciloneria pericolosa. “L’azienda sta vergognosamente cercando di avere dei vantaggi finanziari dal movimento #MeToo, inducendo le vittime a pensare che un kit antiviolenza fai-da-te possa essere utilizzato in tribunale" ha scritto la procuratrice Nessel nella sua lettera di cease-and-desist, equivalente all’incirca ad un’ingiunzione con diffida, pubblicata a fine agosto 2019.

"I pubblici ministeri sanno che le prove ottenute in questo modo non sono sufficienti per una corretta catena di custodia" ha poi evidenziato la giudice, invitando la compagnia a smettere di cercare profitti facendo leva sulla paura di essere stuprate, e a non continuare la propria attività. Dello stesso tenore la procuratrice generale dello stato di New York Letitia James, che ha aderito alla lettera della collega con una dichiarazione pubblica raccolta da Buzzfeed: “Sono estremamente preoccupata da queste aziende che vendono kit che fanno da deterrente per le persone verso le cure mediche necessarie, e pensano di raccogliere prove senza sapere se poi saranno utilizzabili in tribunale. Dobbiamo essere sicuri che chi sopravvive ad uno stupro non sia ingannato, e che la giustizia faccia il suo corso” ha concluso la giudice di New York.

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Il kit antistupro di MeToo

A loro ha fatto eco Ebony Tucker della National Alliace To End Sexual Violence, che a The Cut ha precisato perché il kit antistupro non serve, è inutile e potrebbe rivelarsi un boomerang per le vittime di violenza. “Quando si acquisisce una prova in un esame forense per un caso di stupro, si registra la precisa sequenza di persone che ci sono venute in contatto: chi lo ha toccato, chi lo ha visto, chi sapeva dove era”. Sono precauzioni necessarie per evitare l’inquinamento di campioni preziosi raccolti dai medici nelle varie fasi, delicatissime, che seguono il ricovero per violenza sessuale: gli esami ispettivi, i tossicologici, la consulenza da sostegno psicologico, i tamponi per la raccolta di materiale, sono le chiavi certificate per dimostrare una violenza subita. Nella raccolta di prove homemade con il kit antistupro, il rischio della contaminazione di questi reperti è altissimo e giudici, avvocati, gli stessi stupratori lo sanno bene. In più manca completamente di profondità e complessità della situazione, continua la Tucker: “In molti casi di stupro, l’accusato dice che il sesso con la vittima è stato consensuale. Il kit ti dà l’impressione invece che, se puoi analizzare le prove forensi, tutti i casi di stupro possono essere risolti”. A ciò si aggiunge la mancanza di uno storico su chi possa aver toccato i campioni, anche accidentalmente, e la possibilità che non venga conservato bene diventando così inutilizzabile. Ogni speranza di serietà viene seppellita dall'approssimazione. Oltre al danno, comunque, il rischio beffa c'è: come si legge dalle FAQ sul sito ufficiale, non è ancora garantito che le tracce raccolte tramite questo kit possano essere effettivamente presentate in tribunale quali prove a favore della vittima di violenza.

La fondatrice della startup Madison Campbell ha replicato via Buzzfeed alle accuse puntuali delle giudici, rispondendo che combatterà fino all’ultimo per la sua idea e creazione. Nobilissima intenzione, certo, ma non toglie di torno la certezza che il kit anti stupro sia controproducente, inutile e dannoso per le vittime stesse, dato che è ancora una prova legale. Su TheCut è stata approfondita la questione chiarendo come le iniziali buone intenzioni, sicuramente palesi, siano state vanificate da una profonda mancanza di conoscenza di ciò che succede dopo una violenza: l’eccessiva semplificazione affidata al kit convince le vittime di non aver bisogno di rivolgersi ai medici, o andarci solo in seguito, stroncando ogni possibilità di esami approfonditi che potrebbero essere cruciali dal punto di vista legale e per la salute psicofisica della persona coinvolta.

La direttrice della Joyful Heart Foundation Ilse Knecht ha sottolineato proprio come la parte medica sia complementare nel trattamento dei casi di stupro: “Le vittime hanno bisogno di cure mediche per tracciare malattie potenziali, come l’HIV, le malattie a trasmissione sessuale, o ferite interne. In alcuni casi, le vittime vengono anche strangolate e quei segni possono essere rilevati solo dai medici”. È anche vero che spesso e volentieri negli ospedali minori e nei centri non troppo grandi mancano professionisti che sappiano accogliere le vittime in un momento tanto difficile, ed è su questo che si deve lavorare principalmente per aiutare chi ha subito violenza, specifica la Knecht. In Italia, ad esempio, dal 2010 esiste il Codice Rosa che ha un protocollo specifico in cui inserire chi subisce uno stupro, già a partire dall'accettazione in pronto soccorso.

Non sarà un kit ad aiutare realmente chi è vittima di abusi, violenze, stupri e molestie. Non sarà questo kit antistupro che, sulla scia nobilissima del movimento #MeToo (in Italia #quellavoltache) fondamentale per la cultura e la società mondiali, ha provato a schematizzare in un business ingenuo lo stesso principio dello zaino d'emergenza per il terremoto, o dell'estintore in caso di incendio. Che c'è, ti dà sicurezza, ma non saprai se quando ti servirà sarà davvero sufficiente. Il riassunto implacabile delle legali americane è che il kit antistupro non fa altro che alimentare convinzioni errate sul suo uso, e di certo non sostituisce l'iter medico-clinico per accertare i casi di violenza, domestica o meno che sia. Anzi, potrebbe peggiorare una posizione già delicata, in situazioni in cui nessuna/o dovrebbe trovarsi mai.