Per uno già portato a stilare elenchi, bilanci, la fine dell’anno è una calamità. Scrivo e riscrivo le dieci/venti/zero cose che penso abbiano lasciato un segno nei dodici mesi passati, ma non mi soddisfano. Mi scopro lagnoso, ingrato o distratto. L’anno intanto fugge. Questa volta ho deciso di provarci dentro le 3.500 battute della rubrica. E se cerco un senso che mi faccia esclamare, però, il 2019!, so che deve trovarsi dentro la matassa di parole, corpi e scambi che sono le relazioni famigliari. Non riporto le ipotesi insoddisfacenti poi abbandonate: passo subito al tesoro, all’emozione cui mi sono aggrappato anche nei giorni di tempesta.

È stata la bellezza, la grazia particolare di gesti e pensieri. Quei momenti in cui l’altro ha manifestato la propria armonia con l’esistenza, abbellendola, mettendola in salvo: uno sguardo, un vezzo del fisico, frasi. Per un istante, o 365 giorni.

Non posso che cominciare dalla grafia nitida con cui mia madre, nel ritornarmi un romanzo che le ho prestato ancor prima di leggerlo, scrive su un post-it un giudizio. “Moscio”, “orrendo”, “originale”. Vuole che non perda tempo in letture banali. È vorace: ogni settimana ricevo tre libri letti per me. Dal tipo di libro che apprezza (pochi) o critica, io traggo conferme dell’intelligenza, della persistenza del suo carattere.

In tema di “voracità”, scelgo il sorriso complice con cui mio padre, malato e inappetente, obbligato a mangiare ma costretto a letto, m’indicava le bustine di maionese sul tavolino con cui avrei dovuto infarcire ogni boccone, perfino la frutta se possibile. Era il desiderio, nonostante tutto.

Ho un cugino. La bellezza è in un vocabolo: “cugino”. Lo ripete nelle chat, nelle telefonate; non è necessario, so chi siamo. “Ciao cugino!”. Amo questa ripetizione: è ricordarmi un rapporto esclusivo, sono anch’io il suo unico cugino; e che della nostra relazione abbiamo la fortuna/dovere di ricavare qualcosa. Nominandola, la risveglia.

Le mani di mia figlia decenne. Animaletti sottili che stringo nelle mie quando camminiamo, oppure mi accarezzano la testa, volteggiano attorno con candore infantile: sono indeciso tra loro e le ruote. Vederla piroettare sulla sabbia, a casa, per tutta l’estate è la prova festosa che la vita corre avanti, giro dopo giro.

Le mani forti del fratello ben più grande, che all’improvviso stringono affettuose le sue spalle. È la conquista lenta di una pace. All’inizio una sorella in più l’aveva contrariato: l’avevo deluso. Sapevamo (speravo) che un giorno lei avrebbe fatto parte di un’entità comune, sangue e storia da difendere, coltivare. Le sue braccia forti su quelle spalle: il momento è arrivato.

Con la figlia di mezzo, è un giorno della settimana. Da quando sono separato, il giovedì è nostro. Nel pudore con cui, di fronte ai miei tentativi di capire come stia, che cosa ami o tema, lei si ritrae, c’è un romantico, delizioso invito a insistere. Dopo una cena, le ho detto: ogni volta che ti vedo, mi sento meglio. Poi sono stato benissimo.

Con mia sorella, è stata una chiacchierata in auto sotto l’ospedale in cui nostro padre era ricoverato. Diceva che negli ultimi tempi lui mi aveva sentito lontano. Mi sono arrabbiato (non pensavo fosse vero) e commosso. Un abbastanza non c’è. Aveva ragione! È più piccola, ma in quella brutta serata sotto finestre anonime era diventata grande.

La mia compagna, quando trasgredisce. L’età porta saggezza, rinunce eccetera; così, quando la vedo divorare terrificanti kaiserschmarren tirolesi da otto uova, far fuori un chilo di caldarroste, indossare una maglia troppo scollata o chiudersi ore in bagno con The Crown, che ci posso fare? Penso che voglia ricordare a me, di godere!