La bottega Zampieri è da settant’anni lo standard italiano per l’abbigliamento da lavoro. La sua storia ha inizio nel 1949, quando Bruno Zampieri, vetrinista neppure trentenne, ebbe l’intuizione di aprire a Roma un laboratorio dedicato alla produzione di camici e divise professionali. Mentre la società italiana cominciava a riprendersi dalle devastazioni della guerra e le grandi case, i caffè, gli alberghi, i ristoranti, i circoli lentamente si scuotevano la polvere di dosso, Zampieri lanciava il suo catalogo di camici e divise. Per contrastare il grigio del dolore Bruno non pensò a niente di meglio che chilometri di cotone Zephir rigato — in otto varianti di colore — che sapevano di salari, di sudate, ma anche di speranza e di rinascita. Suo figlio Paolo, allora, dormiva nella carrozzina dietro la cassa.

Sul finire del 2019 il mondo è di nuovo cambiato, ma la bottega di Paolo Zampieri è ancora la risposta migliore che i Parioli possano dare alla sciatteria del presente. Un’oasi di formalismo in un deserto amorfo; un inno all’uniforme in un mondo forse irrimediabilmente gualcito.

Se il diavolo veste Prada, Ambrogio è cliente Zampieri. Dalle guardiole dei portieri di piazza Ungheria a quelle dell’Upper East Side; dai cuochi in eterno rollio dei velieri monegaschi ai footman immoti delle ambasciate di Mayfair, non sei nessuno se non hai personale in Zampieri, ma sei davvero qualcuno solo se è il tuo personale a pretendere di essere così brandizzato. Il primo target a giurare fedeltà al marchio fu, naturalmente, la nobiltà romana: i Pignatelli, i Colonna, i Ruspoli, i Doria Pamphilj. L’espansione successiva è sulle case regnanti dapprima, idealmente, sull’Italia (Agnelli, Marzotto, Montezemolo) e poi, realmente, su alcune nazioni europee (Paola del Belgio su tutte).

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Sara Cervelli

L’azienda riesce a soddisfare l’esigenza dell’hotel a cinque stelle come della normalissima residenza familiare. Perfino le dame del treno bianco di Lourdes non sarebbero così bianche senza Zampieri. Ministeri, grandi uffici privati, ristoranti, set cinematografici: ovunque sia necessario lavorare da vestiti, Zampieri c’è. Paolo dalla sua ha personalità manageriale e culto della conduzione familiare. In sintesi: ha un magazzino pieno di cotone egiziano e non ha paura di usarlo. Riesce a mandare avanti lo show-room grazie a Maru (María del Carmen, sua moglie, argentina) e a una commessa, Paola; il resto lo fa un’ottima gestione dei fornitori, un piccolo laboratorio con sarta e una fidatissima signora in amministrazione.

Per Zampieri non esiste un e-commerce né piani industriali di espansione territoriale: se pure i clienti fossero solo romani, avrebbero comunque case in tutto il mondo. Il suo marchio è ovunque, anche senza spedire un solo pacco. Zampieri ha internazionalizzato così: non ha avuto altro marketing all’infuori del passaparola dei suoi clienti e altro corriere rispetto ai bauli dei relativi maggiordomi.

Le governanti di Susanna Agnelli erano diventate shopaholic per colpa di questi tessuti, tanto che generazioni di domestiche potevano sussurrare, nel silenzio della villa all’Argentario, con leggera variante rispetto al successo editoriale della loro padrona di casa: “Vestivamo alla Zampieri”. Gloria Thurn und Taxis ha chiamato Zampieri perché il catering del matrimonio di suo figlio fosse in linea col colore guida. Vera Rechulski Santo Domingo, madre di Tatiana, con una consuocera come la sua, non poteva non essere cliente di Paolo e Maru. Roman Abramovič ha un factotum che compra da Zampieri per la casa di Montecarlo e per quella di Londra, più uno per la barca. Francis Ford Coppola ha le casacche Zampieri nella sua tenuta vinicola californiana.

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SARA CERVELLI

Tutti i circoli più esclusivi d’Italia comprano da qui, compreso il più esclusivo di tutti, quello degli Scacchi, che ha l’ardire di respingere domande di ammissione anche da ministri in carica (e non solo di questi tempi), ma dipende da Zampieri perché tutto sia in ordine.

Appena entri al 21 di viale Buozzi e sei accolto dallo sguardo inflessibile di Paolo e dal sorriso di Maru, capisci subito perché Zampieri è per le livree quello che il periodo ellenistico è per la statuaria greco-romana. Paolo passa in rassegna i manichini come curatore e custode, a un tempo, di un museo vivente; Pigmalione per una volta felice che le sue creature siano immobili e al loro posto. Nei modelli esposti e richiesti oggi — dal concierge al porter, dal facchino alla cameriera, dal maggiordomo all’autista — non cambia quasi nulla rispetto ai disegni fatti nel ’54, per il primo catalogo di Guido, da una ragazza americana: non un centimetro di tessuto in più, non un briciolo di compostezza in meno.

Può capitare che le illustrazioni di quel catalogo, incorniciato e appeso alle pareti della bottega, prendano vita tra le mani di una cliente. Deve essere per questo che gli alberghi che hanno ancora a cuore che i propri clienti provino la sensazione di viaggiare, e non di restare nello stesso posto, anche a chilometri di distanza da casa, credono tanto nel romanticismo delle maniche a sbuffo di queste divise. Ecco una novizia, che ha appena comprato e ristrutturato casa e, siccome ha già diversi De Chirico, perché sia pronta a dare il primo ricevimento le mancano solo le livree Zampieri e la giusta dose di sogni di gloria. La giubba da domestico, allora, si trasforma in alta uniforme. Ed è subito feticismo da cameriere d’altri tempi, dal sapore austro-ungarico. Le spalline sulle giacche diventano altrettante mostrine sotto gli occhi bramosi di esotismo o, semplicemente, di un quarto d’ora fuori dalla contemporaneità; ed eventuali macchie di caffè, versate sul petto del generalissimo di carta che stringe tra le dita, sono altrettante medaglie al valore, da conquistare sul campo del salotto con doppio affaccio sulla realtà e sulla fantasia.

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Sara Cervelli

Altre volte il distacco tra passato e presente è più difficile da colmare. Quanto potrebbe insegnarci quel giovanissimo bellboy, immortalato accanto al bancone, la cui fierezza vorrebbe tanto essere attuale, ma proprio non ci riesce. Forse è troppa per il 2020 la dignità insita nel saper stare in posizione d’attesa, sullo sfondo di una grande hall, in attesa del richiamo di uno scampanellio. È il momento dell’ansia se è un habitué particolarmente esigente, poi l’azione, il sorriso, un tocco al berretto, il ritorno a fondo campo, come in una partita a tennis in cui orgoglio e contegno vincevano sempre 6-0 6-0 perfino contro teste di serie come alterigia e presunzione.

Probabilmente non c’è in città un negozio meno tecnicamente sciallo ma, al tempo stesso, è difficile trovarne uno capace di infondere più calma nel visitatore. Passare un’ora tra pizzi e bottoni, smerli e sangalli, alamari e merletti, e poi tornare al traffico di Roma è come essere svegliati bruscamente da un pezzo trap dopo essere stati cullati da un’armonia di Bach; lasciare un paradiso di camici monopetto per tornare all’inferno delle auto in doppia fila.

Sotto Natale il contrasto è particolarmente elevato. Grazie ai festoni — semplicissimi ma eleganti in modo disarmante — che decorano l’ingresso e le vetrine dello show-room, almeno una parte dell’ostinata disciplina interna sconfina sulla strada, un attimo prima di essere travolta dal chiasso dei neon e dei fanali.

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Sara Cervelli

Anche uno dei ristoranti di Windows on the World si riforniva di abiti da Zampieri. Le giacche dei camerieri sono andate via con le Torri Gemelle. Anche se le varianti di colore per lo Zephir rigato oggi sono ridotte da otto a tre (verde, oro e bordeaux), i segreti di Zampieri sono ancora in piedi: tessuto, confezione e cura del cliente. Molte consegne a domicilio finiscono in riparazione, quando chi apre la porta di casa viene tradito da un alamaro scucito.

Per Zampieri decrescita felice significa clienti che comprano solo due completi per la mattina e un vestito nero per il sevizio a cena la sera, ma solo se ci sono ospiti. Innovare non ha senso, in un mercato in cui il vantaggio competitivo è restare identici, semmai allargare il target: sale da gioco, cliniche e sempre più cinema e televisione, anche grazie a Giacomo, terza generazione che, dopo un percorso da “nomade” nelle produzioni cinematografiche, è da poco tornato all’ordine.

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Sara Cervelli

Paolo e Maru sanno bene che il caos è sempre in agguato, soprattutto da quando i prodotti dei loro concorrenti sono fatti in Cina, e non parliamo solo di confezioni, ma sempre più anche di remake di Intelligenza Artificiale di Kubrick/Spielberg, se non di Io e Caterina con Alberto Sordi. Non sono poche le giovani collaboratrici domestiche che provano a rifuggire dalle divise inamidate made in Parioli: “Troppo rigide, signora”. Col tempo capiranno anche l’effetto Colazione da Tiffany di una divisa di Zampieri.

Mentre i bambini si fucilano a vicenda su Fortnite, anche solo sapere che esista un luogo al mondo in cui fare distinzione tra divise per rifare i letti la mattina e divise per la copertura del pomeriggio (in caso di riposino post-prandiale), non sarà la svolta, ma fa comunque la differenza. La grande lezione di Guido e poi di Paolo è, infatti, che non importa quanto apparentemente trascurabile o sotto-mansionato possa essere il proprio incarico: non esiste lavoratore che non farebbe ancora meglio la sua parte se il suo abito fosse rispettato, prima ancora che dagli altri, da lui stesso.

Mentre andiamo via Paolo guarda un’ultima volta in direzione della manichina — senza testa ma col cuore — che guarda la strada da dentro la vetrina, perennemente, indefinitamente in attesa di una chiamata, di una cortesia, almeno di un Earl Grey.