Alle 8.30 del mattino in un giorno di ordinario Coronavirus un romano esce di casa e scopre di poter arrivare in ufficio nella metà del tempo consueto, con un filo di gas, infilando solo semafori verdi. Via Cola di Rienzo senza un solo furgone in terza fila è uno spettacolo che, se non fosse post-apocalittico, sarebbe meraviglioso. Il romano parcheggia su un marciapiede libero e dice a se stesso, contemplando Roma, pensando ai milanesi: Quando i vostri Presidenti di Regione si auto-isolavano, i nostri cinesi erano già guariti.

Milano e Roma sembrano essersi scambiate, per un esperimento di improvvisazione teatrale, i ruoli che normalmente rivestono per l’Italia, di cui sono l’una la capitale e l’altra l’eterno TFR di quello che resta di una grande civiltà, sconfitta a tavolino dal presente.

Milano è una città così perfetta, compiuta e definita che le è bastato un accenno di infodemia per ritrovarsi nel bel mezzo del deserto dei Tartari (solo che i Tartari eravamo noi). Roma vive la sua quotidianità talmente sul chi va là che, tutto sommato, un’emergenza sanitaria in più può essere una scusa valida per riscoprire i vantaggi di un relativo ordine sociale o quantomeno logistico, soprattutto se a procurarglieli non sono la buona volontà o il senso di responsabilità dei suoi cittadini, ma una potenziale pandemia.

Vabbè allora rega’ scusate ma io vado a dormire, tanto questi ci manderanno a scuola anche domani.

Come alcuni nerd del ramo fantasy, che si professano atei, in realtà sono religiosi latenti, perché credono nei draghi; così i romani ai tempi del Covid-19, senza avere ancora il Covid-19, sembravano milanesi dormienti, in attesa di essere attivati. Si definiscono allora due tipologie umane che potrebbero sintetizzare le due parti in cui il nostro Paese oggi è spaccato (nonostante gli sforzi di sparigliare le carte da parte dei frequentatori del Comune di Codogno): il milanese vulnerabile e il romano imbruttito.

In questi giorni di febbraio il romano imbruttito gode dunque del primo relativo momento di gloria in oltre un decennio di completa disfatta. Impettito come un gladiatore, eloquente come un conduttore di radio locale calciocentrica, racconta le gesta dei virologi dello Spallanzani, neanche fossero una formazione da scudetto dei tempi andati. Sciorina le location dei 31 ospedali da campo costruiti in città a tempo di record, tutti così puliti e rassicuranti che, da fuori, sembrano gonfiabili di un festificio; e, dentro, sono come laboratori alla Breaking Bad, sancta sanctorum di pozzi di scienza in camice bianco cui, fino a ieri, non avrebbe affidato neppure il proprio figlio indebitato in chimica; ma che le circostanze avverse della vita hanno reso, da un giorno all’altro, eroi cazzutissimi da idolatrare.

La quarantena degli altri è sempre più breve.

Ma non c’è nessuno imbruttito, in queste ore, come i romani in età scolare. Prendete Carlo, 11 anni e Biti, 12, davanti al Tg1 di ieri sera:

Biti, che dici, Zingaretti è un tipo che ci manda a scuola secondo te?

Carlo, non so se decide tutto lui, ma quelli che prima vendevano noccioline alle stadio e adesso sono i capi della Repubblica, per far vedere che sono intelligenti, ci manderanno a scuola.

[Rivolto alla Zia] Zia ma tu non conosci qualcuno d’importante, tipo quel ragazzo che avevi conosciuto al campeggio e che ora comanda? Non potresti chiamarlo e sentire se ci chiude la scuola, come ai cuginetti di Milano?

No, amore, non lo conosco.

Vabbè allora rega’ scusate ma io vado a dormire, tanto questi ci manderanno a scuola anche domani.

Gli altri romani imbruttiti hanno assunto tre principali atteggiamenti di fronte al rischio di contagio, ispirati ad altrettante celebri opere d’ingegno: 1. Decameron (chiudersi ai Castelli o ai Parioli a fare stories); 2. Satyricon (abbracciare la fine da professionisti della decadenza, come se non ci fosse un vaccino); 3. Welcome to Favelas (infischiarsene altamente del primo e del secondo atteggiamento, nonché del Coronavirus).

L’unica cosa per cui il romano imbruttito sembra risentirsi leggermente è lo smart working. Ma poi, da discendente di filosofi, comincia a filosofare: È lo smart working imposto realmente smart? Volete insegnare a noi romani a lavorare meno e, soprattutto, non nelle sedi preposte? Caro milanese, hai insistito per quindici anni col tuo capo — organizzando vari survey dal basso su Google Forms — per lavorare da casa e, ora che ci sei costretto, mi gioco la gomme della Smart che scambieresti cento porzioni di ragù della mamma per una sola pausa macchinetta, coi colleghi del piano. La verità è che si desidera sempre quello che non si ha. La quarantena degli altri è sempre più breve.

Il milanese vulnerabile, oggi, è invece particolarmente vulnerabile. Per prima cosa, non può uscire la sera. A Milano non si è programmati per non uscire la sera. Mentre la vita mondana del romano è un continuo esercizio di bricolage sociale, quella del milanese è estremamente codificata, e il solo venire meno dell’orario consueto dell’aperitivo, col coprifuoco alle 18, ha portato alla crisi d’identità diverse categorie professionali. Tra cui, non ultima, quella dei buttafuori, dopo la scoperta dei palinsesti notturni di Rai 1.

Essere milanese oggi è come provare a cucinare una ratatouille col frigo vuoto.

Milano sotto il Coronavirus è in una guerra senza bombe, un’occupazione liceale senza volantini. Chissà se qualcuno aveva previsto che la fine sarebbe stata annunciata da branchi di associati di diritto civile a contendersi l’ultimo pacco di punte di Cornetto Algida, alla Pam di piazza Beltrade, dopo aver fatto razzie di fagiolame. La sharing economy ai tempi del coronavirus ti impone di rivalutare i mezzi di proprietà, e più spesso ancora mani e piedi.

Madri di famiglia entrano ed escono dalle due polarizzazioni del pensiero in voga — minimizzante-negazionista e aggressivo-paranoica — con la stessa facilità con cui, fino a ieri, provavano sneaker o décolleté stiletto. Conoscono solo due stati, che tendono a postare su Facebook: Moriremo tutti e Che pecoroni.

Ma se Roma è elastica, Milano è determinata. Capitani d’impresa che, i primi giorni di virus, sbocciavano allegramente magnum di Amuchina e, ostentando il caro-igiene personale, si presentavano alle compagne con mazzi di mascherine FFP3 — cento di questi filtri — hanno finito per aprire gli occhi su elementi della loro città che ignoravano da troppo tempo, tipo le aiuole spartitraffico o i loro figli.

Con grande dignità i milanesi vulnerabili stanno reimparando a realizzare cose complesse a partire da ingredienti semplici. La civiltà degli anni ’20 ci ha abituato a cucinare la vita con molti ingredienti tra cui scegliere e poco tempo a disposizione. Ora il rapporto è invertito: Milano ha pochi ingredienti e moltissimo tempo per combinarli. Essere milanese oggi è come provare a cucinare una ratatouille col frigo vuoto.

Si rivive il brivido tardoadolescenziale di un aperivirus clandestino in salotto, con i pochi gin e tonica avanzati da un’estate vissuta pericolosamente, ignari del destino. Uno speakeasy domestico che non ha bisogno di parole d’ordine, se non i gesti di presentarsi alla porta e aprirla, stare insieme.

Come accadeva anche tradizionalmente, il milanese vulnerabile e il romano imbruttito si incontrano soprattutto sui Frecciarossa. Per la prima volta, però, anche nelle roccaforti più inattaccabili dei vagoni silenzio, vengono apprezzati il rumore, la vita. Del resto, il professionista più rispettato non è più il manager con AirPods Pro che esamina tabelle, ma l’uomo delle pulizie che disinfetta i sedili.

Per alcuni passeggeri il viaggio proseguirà fino al Sud, terra promessa degli studenti fuorisede e dei giovani lavoratori, i milanesi più vulnerabili di tutti, protagonisti di una diaspora al contrario, a partire dalla chiusura delle Università e di alcuni uffici. I cervelli in fuga verso casa, una volta arrivati a destinazione, non calcheranno più l’accento nordico acquisito, ma ostenteranno il dialetto originario, per rassicurare i vicini di non essersi mai mossi da Ferrandina.

In fondo, forse Myss Keta aveva capito tutto, e quello della ragazza di Porta Venezia, spavalda, misteriosa, con grandi occhiali da sole e naso e bocca coperti da un velo, è un modello ormai esportabile fino a Porta Romana e oltre. Mascherine pirandelliane a cui si guarda solo o con derisione o con invidia, in base al modello e alla social bubble di riferimento, e mai realmente per quello che sono: un grido d’aiuto muto.