“Volevo dirti che sono stata bene questa sera”. Mia figlia grande ha scritto così a metà di una lunga, emozionante lettera che mi è arrivata qualche giorno dopo una delle nostre tradizionali cene a due del giovedì sera. A tavola aveva pianto, si era irrigidita: sembrava stare tutto tranne che bene. C’era una difficoltà di cui forse voleva parlare, oppure no: non capivo, non conoscevo le frasi giuste. Anche perché sono meglio i fatti. E poi ecco la lettera, con quell’unica parola - “papà” - sulla busta, tanto dolce e impegnativa: invece di “papà”, ero incerto se leggere “Aiuto!”, “Ti adoro”, oppure “Sei un mostro insensibile”.

Ed era una lettera bellissima. Non perché ne uscissi particolarmente bene, ma perché riconosceva che, grazie alla lettera, lei era riuscita a esprimere quanto invece commozione o imbarazzo avrebbero frenato in un dialogo a tu per tu. Bella come quando arriva il vento e apre una porta.

Qualche giorno più tardi mi sono quindi ritrovato a pregare di saper ancora scrivere a mano, cercando una penna che mi soccorresse e che a metà ha ovviamente smesso di funzionare. Pensavo di risponderle sui singoli punti, poi si sono spalancati dimenticati o inesplorati territori del nostro microcosmo affettivo. M’invitavano a fantasticare.

Mia figlia ha ventitré anni. È la creatura amata che più di ogni altra attorno a me è stata silenziosa (o io sordo) negli anni. Che cosa potrei mai sperare di capire di lei, se non illudendomi che il suo cuore, le sue sensazioni siano ferme all’infanzia? Il padre di una figlia rompe volentieri l’orologio. La soluzione l’ha suggerita lei: con una lettera ha creato un personaggio. Di colpo, con la serietà romantica e definitiva della carta, è diventata più diretta, portando in salvo le emozioni dalle trappole della timidezza, della paura di essere ferita. E così anch’io dovevo trovare un personaggio per risponderle, abbandonando ciò che verrebbe semplice, immediato, quando io sono con lei.

Mia figlia non vive con me ma tra le due case c’è appena un semaforo o forse due. C’era bisogno di un francobollo? Sì, se fosse accanto a me, come potrei scriverle davvero, cosa mi obbligherebbe a concentrarmi e scegliere le parole con cura? È facile perdersi di vista, quando si è vicini. Ci sono luoghi che sfuggono all’istantaneità e alle abitudini: restano sotto la superficie, dove un padre e una figlia non hanno comunanza facile. E se esiste, non è fisica e collaudata quanto per una madre. (Si legga a proposito Brevemente risplendiamo sulla terra di Ocean Vuong, appena pubblicato da La nave di Teseo: «Ti sto scrivendo da un corpo che un tempo è stato il tuo». Uno sconvolgente romanzo epistolare tra figlio e madre).

Ora sono in attesa della prossima. Se io fossi in lei, alzerei l’asticella, scandagliando abissi con domande impossibili. In che modo pensi che la separazione possa aver influito sulle mie scelte? Conosci i miei sogni? Capisci quando taccio per non farti male? Sapresti dirmi cosa non ti piace di me senza paura di ferirmi ma con parole buone? Puoi garantirmi che occuperò per sempre un posto fondamentale nel tuo cuore? Magari un po’ meno impossibili, ma spero che approfitti del taglio nella tela prodotto dalla lettera. Somiglia alla gravità. Due corpi che non ricordano di (o come) attrarsi e improvvisamente uno cade verso l’altro. La lettera è un ufficio complicazioni relazioni profonde di cui abbiamo bisogno.
“Sono stata bene questa sera”. Non era la prima volta che lo diceva, ma non ne ero mai stato così sicuro.